Bandiera della pallanuoto italiana, longevo campione indiscusso, ha costruito il suo successo partita dopo partita diventando una leggenda.
Eraldo Pizzo è una leggenda della pallanuoto. Con la Pro Recco ha vinto quindici scudetti (più uno con la rivale Bogliasco), una Coppa dei Campioni, nel 1960 è stato medaglia d’oro alle Olimpiadi e, quasi sfidando un carattere da ligure schivo e concreto, è diventato un mito. «Mi chiamano Cai anche all’estero, ancora oggi che ho 83 anni». Cai sta per Caimano, il soprannome che gli ha dato il portiere compagno di squadra, osservandolo muoversi con gli occhi a filo dell’acqua per sfuggire al fischietto dell’arbitro, quando ancora le partite si giocavano in mare. Pizzo sarà il testimonial della XXVII edizione delle Olimpiadi 50&Più, in programma dal 12 al 21 settembre 2021 a Castellaneta Marina, in provincia di Taranto.
Com’è iniziata la storia della Pro Recco?
Dalle gomme rubate a un camion. Era il 1946 e Recco era stata rasa al suolo dai bombardamenti del 1943. Sono stati più di venti, ma il più devastante era stato quello del 10 novembre. Il Paese era veramente bello, ma non esisteva più. Mentre la città cercava di risollevarsi, cresceva la spinta vitale della ricostruzione. I ragazzi, nonostante la fame e la povertà, d’inverno giocavano a calcio e d’estate a pallanuoto in mare. Era rimasto il ricordo di una società che si chiamava Enotria e prima della guerra aveva espresso buoni pallanuotisti. Un giorno un gruppo di ragazzi, tutti amici, vedono il camion, portano via i pneumatici e li vendono. L’incredibile è che, invece di usare quei pochi soldi per un paio di scarpe o del cibo, hanno comperato i natelli di sughero, le corde e fatto costruire due porte per avere finalmente un campo da pallanuoto vero. Avevano il desiderio, la necessità, di fare dello sport. Così è nata la Pro Recco.
Lei faceva parte di quel gruppo di ragazzi?
No, ne faceva parte mio fratello Piero, che aveva 4 anni più di me, giocava già e anche bene. Avevo 8 anni e a quell’età andavo dove andava lui. Ma non sapevo ancora nuotare e ho imparato perché a forza di andare avanti e indietro dove si tocca, da solo – perché i grandi nel frattempo erano andati a tuffarsi dagli scogli – a un certo punto mi sono accorto che stavo a galla. Avevo 11 anni e ho iniziato a seguirli.
Finendo in squadra.
Due anni dopo giocavo a pallanuoto. A calcio ero negato, in acqua mi veniva tutto facile. La squadra era forte e vinceva. Per due anni di seguito, 1952 e 1953, la Pro Recco è promossa in serie A, ma per disputare il campionato era obbligatorio avere un molo dove l’arbitro potesse camminare avanti e indietro. Invece noi giocavamo in mare con l’arbitro sulla barca che, obiettivamente, non poteva controllare tutti.
Quindi lo avete costruito.
È stata un’idea del sindaco, il ragionier Antonio Ferro. Non ha chiesto soldi, ma inventato la campagna del cemento. Si è rivolto alla popolazione: portate del cemento e noi costruiremo il molo. Abbiamo partecipato tutti. La domenica si passava a fare il molo. Io mi buttavo in acqua con le pietre da mettere nelle gabbie di ferro che sono le fondamenta. Ricordo bene che in aprile facevamo i turni, perché l’acqua era fredda e più di un quarto d’ora non si resisteva. Poi abbiamo costruito la piscina che oggi è intitolata proprio ad Antonio Ferro.
Una storia bellissima.
Allora era naturale. Quando si fanno le cose in comunità diventa tutto più semplice.
Quali successi sportivi le sono più cari?
Il primo titolo di Campioni d’Italia, nel 1959 a Trieste, è indimenticabile. Mio fratello Piero era diventato un allenatore duro, serio, impegnato. Sapeva come guidare noi ragazzi e gran parte del successo si deve alla sua impostazione di lavoro. Siamo arrivati in finale con la Canottieri Napoli, la squadra favorita, e li abbiamo battuti. Ma ridendo e scherzando… avevamo 20 anni, mio fratello 25 e non pensavamo di vincere. Da Recco a Trieste erano venuti una sessantina di tifosi in Vespa (non c’era l’autostrada), con lo scudetto già cucito sulla bandiera.
Nel 1960 vince le Olimpiadi a Roma.
Per uno sportivo significa toccare la vetta. Giocare la finale davanti a 16mila spettatori è stato incredibile.
Dove tiene la medaglia?
Nella scatola di una cravatta della Pro Recco. Dev’essere in un armadio. Ho anche il pallone di cuoio con cui abbiamo giocato la finale olimpica. In un sacchetto di plastica sempre nell’armadio. Tengo tutto.
A Belgrado, lo scorso giugno, ha alzato commosso la Coppa della Champions League vinta dalla Pro Recco.
Mi sono commosso perché una squadra di giovani mi ha chiamato in mezzo a loro e mi ha fatto alzare la coppa per primo. Senti di fare parte di qualcosa che hai contribuito a costruire. Consiglio a tutti di frequentare i giovani per rimanere giovani.
Che consiglio può dare a chi deve affrontare una gara, di qualunque livello e a qualunque età?
Essere concentrati su di sé e sui propri compagni. Pensare alla vittoria non solo non serve, ma può essere controproducente, perché se vai in svantaggio rischi il panico. Se ho potuto giocare e vincere fino a 44 anni, è perché ho sempre giocato più con la testa che con il corpo.
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