Tra collaborazioni e successi senza tempo, il rocker vanta una sconfinata libertà artistica e varietà nella produzione, tra libri, musica, radio e Tv, sempre pronto a esplorare nuovi orizzonti, a sperimentare, spesso controcorrente
Enrico Ruggeri è nato a Milano nel 1957 e suonava nelle cantine già a 15 anni. Ha vinto due Festival di Sanremo, inciso 35 album (di cui 5 con i Decibel) e scritto brani per molti cantanti. È anche conduttore radiofonico e televisivo e autore di cinque raccolte di racconti e poesie, sei romanzi e la biografia Sono stato più cattivo. Il suo ultimo cd è l’eccellente Alma e Un gioco da ragazzi il suo recente romanzo.
Avanzando con l’età gli artisti tendono a essere meno soddisfatti delle loro opere, il che li porta a diradare sempre più le loro uscite. Lei invece è iperattivo, libri, dischi, trasmissioni Tv. Qual è il suo segreto?
Non ho un segreto. Semplicemente ci sono due modi per approcciarsi alla composizione e alla scrittura. Uno che parte dall’idea “ho fatto delle cose importanti ma sarò capace di ripetermi?”, così uno ha sempre più paura nell’uscire con delle novità. L’altra pulsione è quella di dire “quanti anni ancora avrò per fare dischi o libri? Non lo so”, quindi è meglio sbrigarsi, non sprecare tempo, non buttare via le giornate e produrre, perché ho ancora delle cose da dire. Io comincio a pensare che devo fare un po’ presto. Inoltre, avendo avuto un padre che non faceva nulla per una forma di depressione, sono diventato iperattivo. È un po’ come per i figli degli alcolisti, che o diventano alcolisti pure loro oppure rimangono astemi tutta la vita. Io mi sono buttato dalla parte opposta, non sono mai andato in vacanza, anche perché mi diverte molto quello che faccio. Quando uno dice “staccare la spina” a me viene in mente più staccare quella della tenda a ossigeno quando uno è destinato a morire, piuttosto che il prendere la station wagon e andare con i bambini al mare.
Come vive il confronto tra il Ruggeri di oggi e quello di 30/40 anni fa?
È sempre complicato. Perché quando hai fatto 35 album, di cui 5 con i Decibel, hai sempre paura di ripeterti. Il terrore di rifare le cose che hai già fatto è più presente man mano che le cose fatte aumentano. Paradossalmente la realtà che il rock non viene passato in radio ti avvantaggia perché il cantante, diciamo, over ha due possibilità. Può cercare di adeguarsi e solitamente diventa un po’ ridicolo: il cantante che realizza un pezzo con il rapper, il trapper, arrangiato dal produttore del momento, suona sempre un po’ ridicolo. Oppure segue la sua strada, che certo non lo porta a fare concerti a San Siro, ma va bene lo stesso. Io lo sapevo già da quando ho iniziato, sapevo che non avrei mai riempito uno stadio e anche che non sarei mai scomparso. Questo mi ha avvantaggiato, perché nessuno potrà mai dire che Ruggeri in quel periodo “ce stava a prova’”, io ho sempre seguito la mia strada.
La sua strada è stata un po’ da falco e un po’ da gabbiano, diviso tra il rock e gli chansonnier francesi, tra il punk e il progressive, tra Peter Pan, il suo album più venduto, e Frankenstein, il suo concept. Come ci si sente divisi a metà?
È molto stimolante. Andare in studio e pensare che prima hai ascoltato Aznavour e gli Stranglers, Cohen e gli Yes, ti mette in una condizione di grande libertà. Chi mi conosce sa che dentro le mie canzoni ci sono un sacco di influenze e quindi nessuna influenza. Seguo le mie potenzialità, a volte sento che una canzone è più funzionale con il rullante alzatissimo e un muro di chitarre elettriche, allo stesso tempo magari me ne è uscita un’altra per cui sono perfette la tromba e la fisarmonica.
Il suo ultimo album Alma suona un po’ pessimista…
Dipende un po’ dai punti di vista. Di certo si chiude con una canzone particolare, secondo me una delle più belle che abbia mai scritto benché sia poco nota, Forma 21. Era la figurazione di Tai Chi che stava effettuando Lou Reed nel momento in cui è morto, come racconta la moglie Laurie Anderson, che lo stava sorreggendo. Ho descritto l’attimo della morte, seguendo quello che dice Laurie e che mi è capitato di notare quando ho accompagnato qualcuno all’ultimo momento: «Ho visto nei suoi occhi un’espressione di stupore». Un argomento di certo non pop, che non si usa affrontare nelle canzoni, ma ha un’accezione molto positiva, perché afferma che la morte è un punto di inizio e non un punto di arrivo. Non è pessimismo, è solo che a 60 anni non scrivi quello che scrivevi a 20, ma è normale e giusto sia così.
È complicato passare da una forma espressiva come la canzone a un’altra come il libro?
Succede quando ci sono dei concetti che rimangono nella penna. Se non riesci a esprimere quello che hai dentro completamente solo in una canzone, ti viene voglia di scriverlo in una forma, non voglio dire più complessa, ma sicuramente più articolata. Per farlo ci vuole un misto di umiltà e consapevolezza. Non bisogna esagerare con nessuna delle due: se eccedi in consapevolezza, finisci per essere superbo e promuovere tutto quello che fai; se sei troppo umile, finisci per avere paura della tua ombra e non fare nulla. Il segreto è cercare di stare in bilico. Con i libri è stato più difficile, perché la scrittura non era la mia comfort zone. Io ho iniziato a scrivere canzoni a 13 anni, in qualche modo so come si fa. Per i libri ho dovuto imparare sul campo, con molta umiltà. La svolta è avvenuta nel 2000, quando ho fatto avere a Feltrinelli alcuni racconti senza dire che erano miei. Avevo paura che li pubblicassero solo perché ero un po’ famoso e qualche copia l’avrei comunque portata a casa. Hanno deciso di pubblicarli senza sapere che erano miei, il libro si chiamava Piccoli mostri. Da lì mi sono ringalluzzito, ho iniziato ad allungare la scrittura e sono passato ai romanzi, fino all’ultimo che è particolarmente corposo.
Un gioco da ragazzi è un’epopea famigliare tragica per tutti i protagonisti, tranne che per Aurora, la sorella più piccola che cerca sempre di salvare tutti dal loro destino e che, grazie alla musica, si salva dal dramma. È lei il suo alter ego nel romanzo?
C’è un parallelismo evidente, perché ho vissuto gli stessi anni e le stesse temperie dei fratelli di cui narro la storia. Anni in cui c’era il terrorismo e c’era l’eroina che arrivava prepotentemente: nella mia scuola c’erano persone che hanno ammazzato e persone che sono morte di overdose oppure di Aids. Io sicuramente mi sono salvato, un po’ per la fortuna di aver avuto amicizie giuste (quando hai 15 anni e il tuo idolo ne ha 18, è un attimo scivolare nella sua deriva), ma soprattutto grazie alla musica. Tutte le volte che accadeva qualcosa che non mi piaceva, ed era quasi sempre, io mi rifugiavo in cantina con i miei amici. Allora si suonava perché ti faceva stare bene, non pensavo minimamente che sarei diventato musicista, avrei guadagnato dei soldi, sarei diventato famoso. Non c’era il senso di rivalsa sociale, c’era semplicemente questa micro, micro celebrità: «Ma chi, Ruggeri, quello della Seconda H, quello che suona?». Questa era la mia collocazione nella società, che mi faceva stare molto bene. Quindi sì, Aurora è certamente il personaggio che mi assomiglia.
Benché lei abbia fatto molta televisione, in Un gioco da ragazzi è un evento Tv a scatenare la tragedia. È proprio così “cattivo” il media televisivo?
La televisione è tutto. È evidente che, vivendo di ascolti, di concorrenza, di competitività, porti il suo livello ad abbassarsi. Il problema di certa televisione oggi è fare leva sugli istinti peggiori che abbiamo. Se, passeggiando incontriamo da una parte due che recitano Virgilio e dall’altra due che si picchiano, istintivamente guardiamo i due che si menano, ignorando gli altri. Non siamo delle brutte persone, semplicemente in quell’istante la parte peggiore di noi, quella pettegola e curiosa, ha il sopravvento su quella che vuole farci accrescere intellettualmente. La tv ha costruito il suo impero su questo meccanismo. Chi la fa deve stare molto attento perché si diventa vittima oppure carnefice in un attimo. Però tutti quelli che vanno in televisione, anche per cinque minuti, hanno la possibilità di migliorare o peggiorare questa situazione, a seconda dei casi.
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