Intervista al cantautore milanese, che pubblica il nuovo album La caverna di Platone a tre anni di distanza dall’ultimo lavoro
Aveva progettato di fare il musicista sin dall’età di otto anni e iniziato in cantina con i compagni di scuola, ed Enrico Ruggeri è riuscito benissimo nel suo intento. «Direi che la mia vita è andata oltre ogni più rosea aspettativa: non pensavo certo di durare così a lungo», ci dice.
Lei è arrivato al grande pubblico proprio con i Decibel e la Contessa che avete proposto a Sanremo nel 1980, poi ne ha vinte due edizioni con passi avanti importanti per la sua carriera. Cosa pensa del Festival oggi?
Sanremo è un palco importante, ma ormai lo vedo più come un grande show che come un festival della canzone. È un grande evento mediatico, che deve tener conto di mille fattori, quasi tutti extra musicali. Dopo l’esperienza con i Decibel ho capito che il tipo di successo più gratificante è quello che si ottiene lentamente, perché è meno frastornante, la gente si aspetta meno da te e non sei legato a dei cliché.
Quasi in opposizione ai cantanti del festival Ruggeri, a tre anni dal riuscito La rivoluzione, propone un nuovo cd pochi giorni prima della kermesse sanremese. Un disco complesso e articolato fin dal titolo La caverna di Platone, che si rifà alla “dottrina delle idee” del filosofo greco vissuto a cavallo del V e del IV secolo a.C., secondo la quale forme eterne e immutabili, universali e necessarie, le ‘idee’ appunto, sono il fondamento del mutevole divenire del reale. Un disco difficile, duro, da ascoltare senza distrazioni, in cui il cantautore parla della felicità perduta, della sua idea di Europa, degli intellettuali scomodi, della guerra e della Milano di oggi, di aspettative al femminile e della solitudine.
In un periodo complicato come l’attuale, in cosa un disco può aiutare noi ascoltatori?
Non credo che un album possa ‘aiutare’, al massimo può aprire orizzonti diversi. Aiuta a fare i conti con sé stessi, a guardare dentro le proprie debolezze senza fuggire. Viviamo in un mondo che spesso ci spinge a distrarci per non affrontare ciò che ci spaventa, ma credo che trovare il coraggio di osservare la realtà, anche quella più cruda, possa renderci più consapevoli. Il mio non è un disco che promette facili soluzioni, ma invita a riflettere, e la riflessione, per quanto scomoda, è sempre il primo passo verso un cambiamento.
La prima dichiarazione programmatica del cd è che per affrontare il domani bisogna guardarsi anche indietro.
I grandi eroi non sono mai vissuti invano e il segno che lasciano in realtà non si può cancellare. In Gli eroi del cinema muto ho cercato sonorità che mi aiutassero a ritrovare un mondo perduto, mettendo al centro i volti sbiaditi, ma pieni di intensità, di personaggi che un tempo erano esaltati da tutti. Le stelle del muto dovettero fare i conti con un cambiamento importante e molte furono dimenticate. In generale ci sono antichi valori cui guardare eccome!
Canta anche la guerra, sia quella reale che quella interpersonale, dove “Dio non c’è”. E non ci dà la speranza che risorga. Un po’ tutto il disco è pessimista.
Non lo definirei pessimista, ma realistico. Qui non ci sono vincitori, perdono tutti, l’umanità in primis. Zona di guerra non vuole dare risposte facili o speranze costruite su illusioni. Non c’è effettivamente molto spazio per l’ottimismo: è un racconto crudo su cosa vuol dire avere la guerra sull’uscio della propria casa. La frase “Dio non c’è” però può suonare come un’invocazione. C’è anche un altro brano che parla delle atrocità della guerra, La bambina di Gorla: la strage causata dagli alleati nell’ottobre 1944 fa da teatro per raccontare la storia di una bambina, sopravvissuta all’eccidio, costretta a vivere con i suoi fantasmi.
Anche l’ironia de Il problema non offre soluzioni.
È un brano spiccatamente rock per trattare con ironia l’argomento della felicità. La felicità è un percorso che va cercato dentro di sé. In mezzo a miriadi di brani che esaltano i beni materiali, l’ostentazione, la ricchezza come valore morale, ho voluto ribadire che la felicità viaggia su ben altri binari.
La canzone di suo figlio Pico Rama, Benvenuto chi passa da qui, è la più positiva del cd. Pensa che le nuove generazioni vedano il domani con occhi più disponibili e aperti rispetto a quelli degli over?
Ho imparato molto dall’approccio positivo e filosofico di Pico: con la sua spiritualità, mi ha dato una lezione di serenità che spesso mi manca. Direi però che lui rappresenta un’eccezione, sembra un’anima degli Anni ’60. Ho sempre cercato di non dare lezioni di vita, ma le ascolto molto volentieri, e, se è il caso, le canto con piacere.
Cantautore, scrittore, conduttore radio e tv. Di certo l’età che avanza non la ferma. Ha qualche nuovo progetto per il futuro?
La gestazione di questo disco è durata tre anni. Ora mi sto concentrando sul mio programma tv Gli occhi del musicista, dove posso portare gli ospiti che voglio senza nessun obbligo, cantautori affermati e nuove proposte, che si esibiscono con una band dal vivo. Per il resto navigo a vista: adesso non vedo l’ora di tornare sul palco!
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