Emilia Mastrangelo.
Laureata in lettere, docente di italiano e latino nei licei attualmente in pensione. Da sempre appassionata di scrittura, ha pubblicato di recente un libro di short stories “Le mie storie bizzarre”. Impegnata in varie attività associative di tipo culturale e sociale e membro del Direttivo 50&Più Caserta. Partecipa al Concorso 50&Più dal 2008 conseguendo varie Menzioni speciali della Giuria per la prosa e la poesia. Vive a Caserta.
Renato aprì a stento la porta di casa, lanciò le chiavi sulla consolle dell’ingresso, centrando in pieno il contenitore svuotatasche. Ne provò un certo compiacimento che in un altro momento avrebbe enfatizzato con un gesto di vittoria, ma ora era troppo stanco. Si allentò il nodo della cravatta e si fiondò sul divano della sala semibuia, lasciando scivolare a terra la giacca.
Il raggio azzurrognolo di un’insegna luminosa proveniente dall’edificio di fronte s’insinuava tra le fessure della persiana chiusa, attraversando gli oggetti di casa e disegnando righe suggestive sulla parete di fronte. La luce fioca enfatizzava batuffoli di lanugine, briciole e cartacce sui pavimenti, polvere stratificata sui mobili e sugli arredi della sala. Da quando la sua Ninetta non c’era più, non aveva tempo né voglia di dedicarsi alla casa e le colf di turno non resistevano che qualche giorno alle sue sfuriate.
Tornava da una serata di baldorie con gli amici per festeggiare il suo pensionamento e, come al solito, aveva esagerato con gli alcolici, mostrando un’euforia che appariva ormai a tutti innaturale. A quell’ora negli ultimi tempi non riusciva a reggere il confronto con se stesso senza alzare il gomito e quella sera in particolare era giunto al limite della tolleranza, perciò sprofondò subito in un torpore indistinto.
L’unico suono che rimbombava nelle sue tempie era il ticchettio oscillatorio del pendolo. Non distingueva altro, il suo corpo percepiva movimenti rallentati intorno, confusi, lontani. Perdeva progressivamente i contatti col reale per sprofondare quasi nella trama di un sogno.
Non era più lì, in quel living polveroso, che fino a non molto tempo prima brillava di arredi esclusivi e risuonava di voci, di presenze accolite in un’euforia più ostentata che reale. Ora rincorreva immagini nebulose, visioni oniriche di una realtà lontana nello spazio e nel tempo, ripescate nei meandri di una memoria alterata: un pavimento di mattoni sconnessi, l’alto soffitto di immensi stanzoni dalle pareti scrostate, il giardino con l’ampio limoneto addossato alla parete d’ingresso, la cucina fuligginosa, il bagno essenziale sul ballatoio esterno… Insomma era nella vecchia casa paterna!
Gli sembrava di vedere al centro dell’ampia cucina il braciere, alloggiato nel foro centrale di un predellino di legno circolare, ‘o pere ‘e vrasere, come lo chiamava sua madre. Fuori sentiva sibilare il vento, che picchiava ai fragili vetri delle finestre con la protervia invadente di un ospite sgradito. Quanti piedi c’erano sul predellino di legno che circondava quell’unica fonte di calore? A Renato pareva di vederne tanti: quelli del fratello Enrico e delle sorelline gemelle Emma e Mimma, che si stringevano tra loro per prendere un po’ di calore dalla reciproca vicinanza. Avevano macchie violacee di geloni sulle gambette ed appoggiavano le mani sulla curvatura di esili listelli di legno intrecciati, che formavano l’asciuttapanni, una sorta di campana che li proteggeva e insieme li allontanava dalla carbonella ardente del braciere, ma serviva anche per asciugare i panni nel gelido inverno. Vedeva anche i piedi del papà, della mamma e della nonna Maria, che parlava e parlava, raccontando di streghe e di incantesimi, che li ammaliavano, ma poi puntualmente tornavano di notte a popolare di incubi i loro sonni di bambini.
Ora la voce del papà si sovrapponeva a quella della nonna: “Renatino, leggici ancora qualche pagina! Ieri eri rimasto che Lucia veniva rapita da quei brutti ceffi dei bravi. Dai, continua!”. E lui, Renatino, docile, prendeva il grosso volume de “I promessi sposi” e leggeva leggeva e tutti intenti ascoltavano. Solo Mimma ogni tanto sbadigliava e finiva addormentata tra le braccia della mamma. Papà Nicola, invece, era il più attento. Possedeva quell’unico libro, avuto in dono da uno zio paterno e si era appassionato alle ingarbugliate vicende di Renzo e Lucia. Non sapeva leggere ed era fiero di quel figlio che a nove anni leggeva già così spedito.
Don Rodrigo, l’Innominato, i Bravi, Fra’ Cristoforo s’incalzavano nella mente confusa di Renato, apparivano e sparivano, si confondevano…
Quante volte negli anni era tornato su quelle pagine! Era capitato non solo a scuola tra le letture prescritte, ma anche a casa, quando era in vena di strane nostalgie, nei rari tempi morti delle sue convulse giornate; sempre sullo stesso librone che ormai era diventato suo, dopo la morte del padre. Quante volte! Del resto in casa ai tempi della sua infanzia non c’era il televisore né le diavolerie che riempivano il tempo presente di Renato. Le serate d’inverno erano lunghe e le letture del bambino o i racconti della nonna erano un po’ come le fiction di oggi.
Nelle nebbie della sua mente gli pareva di vedere sua madre che andava a riscaldare i letti con lo scaldino di rame in quelle fredde stanze, ma non bastava mai e quasi risentiva il brivido al contatto con le lenzuola gelide, mentre s’infilava sotto le coperte e vedeva il buio popolarsi di strane ombre prima di piombare nel sonno.
E il sonno venne davvero ad alleviare gl’incubi della sbornia e degli stravizi, un sonno agitato e popolato da tanti confusi fantasmi di un passato lontano e più recente. Voci e volti si sovrapponevano e si confondevano: il papà e la mamma che facevano capolino da una lapide, gli amici che sghignazzavano, un’auto in corsa per una strada buia e tortuosa, la voce concitata di Ninetta, il fragore di un botto, un volto insanguinato, una nera presenza indistinta con l’indice puntato contro di lui e poi … il silenzio, finché la luce dell’alba venne a ferire le pupille, chiamando a raccolta le forze delle palpebre, mentre il cervello pompava comandi a raffica per spingerlo ad uscire da quel torpore che ancora serpeggiava tra le membra. Le forme cominciarono a prendere confini, i colori ad accendersi, i rumori di casa a risvegliarsi, il ticchettio del pendolo a farsi percepire di nuovo in uno sforzo, ove ogni microscopico movimento del bulbo oculare costava una fatica immane.
La luce diveniva a mano a mano più chiara, ma di un bianco impolverato, ovattato e sordo. I pensieri erano congelati nello scopo comune di destare il corpo. I fantasmi del passato che avevano popolato il suo dormiveglia e le figure confuse del suo sonno andavano illanguidendosi dietro le immagini più concrete della realtà presente.
Si vedeva ora circondato dai segni di tutti quegli agi che rendevano comodo il suo vivere quotidiano e che pure gli erano sempre apparsi scontati: i mobili studiati per soddisfare ogni esigenza, la boiserìe che correva lungo le pareti per rendere più calda e accogliente la casa, i mille congegni elettronici che servivano a semplificare le piccole incombenze del vivere quotidiano, i preziosi quadri alle pareti, il lusso delle suppellettili, scelte con cura meticolosa da Ninetta e malcelati dalla coltre di polvere e dal disordine recente.
Confrontava questa realtà con quel mondo del suo passato, in cui era sprofondato nell’alterazione dell’ebbrezza, un mondo così privo di tutto, così essenziale, ma che gli aveva lasciato un sapore amaro di nostalgia.
Gli tornarono in mente i suoi familiari: il papà Nicola analfabeta, ma così curioso ed attento ad assecondare l’intelligenza dei figli, garantendo a tutti studi adeguati e a lui una laurea prestigiosa; la mamma sempre indaffarata, che concludeva le sue giornate con un sorriso ed un bacio sulla fronte, mentre rimboccava le coperte. Da quanto tempo non andava a trovarli nell’angusto cimitero del paesello natìo? E da quanto tempo non sentiva il fratello Enrico, che ora viveva a Sidney con la moglie straniera, insieme ai figli, immersi tutti in un mondo di abitudini diverse dalle sue? E le gemelle? Come diavolo avevano fatto a spingersi una a Boston e l’altra a Goteborg? Così lontane anche loro, ormai chiuse nell’ambito delle rispettive realtà familiari, evocate solo da qualche rara videochiamata.
Il suo convulso presente lo aveva irrimediabilmente allontanato da quegli affetti e da quel mondo ancestrale così magico, che aveva costituito il loro vissuto comune.
In un lampo riemerse anche il pensiero di Ninetta, che da circa un anno ricacciava indietro vigliaccamente. Strinse gli occhi anche questa volta, come per allontanarlo, si alzò di scatto per andare in cucina, ma, mentre infilava la cialda nella macchinetta del caffè, riaffiorarono dai recessi della sua coscienza i sensi di colpa che lo tormentavano. Era lui alla guida mentre tornavano a casa e risentì quell’eco ossessiva: “Non correre”, “Non correre”, “Non correre”, ma la strada era deserta e l’adrenalina della velocità gli dava un piacere quasi fisico. Poi lo schianto. Lui illeso o quasi e lei non c’era più.
Faticava a dominare quest’incubo e non riusciva ad impedire alla sua mente di lambiccarsi per far luce sulle ombre del suo passato. Un groppo alla gola gli strozzò un singhiozzo sul nascere. Era così da tempo. Il pianto non riusciva a trovare la via della liberazione e veniva ricacciato indietro, sempre più nel profondo
Mentre prendeva lentamente coscienza del suo presente, avvertiva anche una crescente angoscia. Quel giorno cominciava la sua vita da pensionato. Cosa avrebbe fatto ogni giorno senza andare al lavoro? Chi avrebbe visto? Come poteva riempire il suo tempo e i suoi spazi?
Si sentì sull’abisso del nulla. Una sgradevole sensazione di vuoto lo prese alla bocca dello stomaco e si ripresentò anche un vecchio sottile rimpianto a cui non aveva mai voluto dare spazio e voce. Di comune accordo lui e Ninetta non avevano voluto figli ed ora non era più tanto sicuro che fosse stata una scelta giusta. Forse lentamente si faceva strada la consapevolezza di una vita spesa male.
Dalla strada giungevano i rumori della città che si stava svegliando e la voce di un passante che affrontava il nuovo giorno cantando lo riscosse dai suoi pensieri. Aprì appena la finestra ed insieme ad una ventata di aria fresca gli giunse l’eco di un motivo “Ohi Marì, Ohi Marì …”.
Era forse il presagio di una nuova vita? Cosa avrebbe fatto dei suoi giorni? Doveva innanzitutto fare i conti col suo passato, anche quello legato a Ninetta, una volta per tutte. E l’eco di quella canzone “Ohi Marì” poteva essere forse la prospettiva di un nuovo amore? Avrebbe trovato la sua Marì? In fondo la vita è imprevedibile.
Poteva abbandonarsi fiducioso al fluire istantaneo della vita e ne avrebbe accettato ogni esito. Poteva cercare nell’avventura di qualche viaggio l’opportunità di avvicinarsi al fratello, alle sorelle e riannodare i fili di una familiarità persa nel tempo. Forse poteva tornare in quella vecchia casa paterna, abbandonata al logorio rovinoso del tempo, rimasta chiusa per tanti anni, dove ogni cosa trasudava semplicità e conquista. Poteva cercare l’opportunità di riunire lì l’intera famiglia almeno per una volta.
Avvertì l’ampiezza delle opportunità e il fascino di un futuro fluido. Ecco, la pensione non era che un nuovo inizio.
Ormai si era fatto giorno; Renato guardò il suo riflesso nello specchio della sala e vide un uomo col volto vecchio, segnato, le occhiaie profonde. Mentre si scrutava spietatamente, avvertì prima la vibrazione e poi il suono del cellulare, rimasto nella tasca dei pantaloni dalla sera precedente.
“Sì… Pronto?”.
“Senti cos’ho trovato su You Tube stamattina”, disse senza preamboli Franco, il suo amico di sempre, e gli aprì l’audio:
Hold fast to dreams Aggrappati forte ai sogni
For if dreams die perché se i sogni muoiono
Life is a broken-winged bird la vita è come un uccello dalle ali spezzate
That cannot fly che non può volare
Hold fast to dreams Aggrappati forte ai sogni
For when dreams go perché, quando i sogni vanno via,
Life is a barren field la vita è come un campo sterile
Frozen with snow congelato con la neve
Erano i versi di Dreams, una poesia di Langston Hughes, che avevano imparato a memoria ai tempi del Liceo per imposizione della loro Teacher d’inglese. Ci sghignazzavano su spesso, ricordandone stralci
Spalancò di più la finestra, fece entrare la luce e uscire il sonoro di You Tube dalle quattro mura. Lo sconosciuto canterino dal basso alzò la testa e fece il segno di ok con la mano, forse senza neanche capire; si fermò, sorrise e riprese a camminare, sempre cantando. Renato capì che era giunto ad un bivio della sua vita e… scelse la strada dei sogni.