Elisabetta Maria Antonella Greco. (dentro un quadro di Escher) Laureata in economia, ha lavorato alla Pirelli dove ha partecipato per tanti anni alla community di lettura creata al suo interno. Nel 2018 ha iniziato a frequentare corsi di scrittura creativa e a scrivere racconti. Attualmente insegna scrittura creativa all’Università della terza età di Muggiò. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta: per la prosa ha vinto la Farfalla d’oro nel 2022 e la Libellula 50&Più nel 2023. Quest’anno si cimenta anche per la fotografia, da sempre il suo hobby. Vive a Monza.
“… O mia Giulietta, perché sei tanto bella ancora, cara?”
Il giovane attore declamò il verso, tanto sublime quanto disperato, con lentezza, rivolto verso il pubblico e fu subito accolto da un applauso a scena aperta.
“Neanche fosse l’autore”, pensai un po’ invidioso, mentre battevo le mani.
“Dov’è che l’ho già visto recitare?”.
Sentii un tuffo al cuore: le parole mi erano arrivate nel silenzio che aveva seguito l’ovazione degli spettatori. Resistetti all’impulso di alzarmi dalla poltrona: lo spettacolo purtroppo non era ancora giunto alla fine. Provai odio puro per gli attori che continuavano a recitare, ignari della tempesta che agitava il mio cuore. Finalmente il teatro si illuminò e così mi guardai intorno con impazienza, mentre lasciavo la sala, trascinando con me Simona, mia moglie. Tutto inutile. Mi convinsi che quella voce, la voce di Sara, l’avevo solo sognata.
“Che ti succede? Hai fretta?”, mi sussurrò Simona all’orecchio.
“Ma no, è che fa troppo caldo…”, le risposi, evitando di girarmi a guardarla.
Nel foyer chiesi a Simona di occuparsi dei cappotti, per restare solo, per cercarla. Alla fine, la vidi: portava ancora i capelli lunghi, sciolti, ne aveva solo cambiato il colore. Era al bar del teatro, con un flute nella mano parlava con un ragazzo. Incrociò il mio sguardo e sorridendo alzò il bicchiere verso di me. “Quella ragazza con il cappotto rosso sta brindando… a te… è molto bella!”, disse Simona, che nel frattempo mi aveva raggiunto e non capiva quello strano teatrino. “E’ Sara, una mia vecchia amica. Vieni, andiamo a salutarla”, le dissi emozionato, e con passo veloce ci avvicinammo al bancone del bar.
Abbracciai e baciai Sara sulle guance, con un trasporto eccessivo, dato il contesto. Quando la liberai dalla mia stretta, disse che era felice di vedermi. Era ancora più bella di come l’avevo sognata per anni, più donna. Quando mi fu chiaro che il suo accompagnatore era solo un fotografo di passaggio a Milano, ordinai euforico dello spumante. Proposi un secondo giro per tutti ma Sara rifiutò gentilmente, aveva un servizio fotografico molto presto la mattina seguente. Ancora abbracci, complimenti e scambio di numeri, con Simona che non le toglieva gli occhi di dosso, come abbagliata. Poi Sara, mentre si incamminava verso l’uscita, si voltò. “Settimana prossima festeggio il mio compleanno, dovete assolutamente esserci!”, ci disse, e poi, fissandomi, aggiunse: “Il giorno te lo ricordi, vero?.”
Non risposi, rimasi inebetito, con il bicchiere vuoto in mano. Simona mi guardava pensosa.
Tornando a casa mia moglie non disse una parola, mentre io mi nascondevo dietro stupidi commenti sugli attori. Assecondava la mia recita, non faceva domande. Solo dopo, in salotto, mentre sul divano giocava con il telecomando, mi chiese se era stata una storia importante. Risposi, con la voce un po’alterata, che era proprio fuori strada, eravamo stati grandi amici ai tempi dell’università, solo quello. Mentii senza una ragione, come un marito infedele. Va bene, mi disse, e continuò a cambiare canale. La lasciai davanti ad un vecchio film e quando mi raggiunse in camera finsi di dormire.
La mia storia con Sara era stata una relazione tossica che mi aveva divorato. Ci eravamo conosciuti per caso e per caso avevamo continuato, per dodici mesi. Vivevamo alla giornata: lasciavo le lezioni all’università a metà e correvo da lei, saltavo gli appelli, non tornavo a casa nemmeno a cenare. Un tram e poi salivo fin su al quinto piano, in quel piccolo appartamento sui Navigli, caldo e profumato di vaniglia. Eravamo lontani anni luce: Sara, giovane modella, ambiziosa e rampante, ed io anonimo studente all’ultimo anno di Lettere. Si aggrappava con le unghie e con i denti al mondo luccicante e frivolo della moda, la sua via d’uscita da una vita sbiadita in provincia. Diceva che la riportavo sulla terra, dopo tutto quel lusso e quella arroganza, proprio io che avevo la testa persa fra le poesie e le pagine di un romanzo che non avrebbe mai avuto un futuro.
Ancora una volta, quella notte, misi in fila le tessere della nostra storia: momenti felici che soccombevano al ricordo della sua insofferenza per la mia gelosia, della noia che le leggevo sul viso. Ero il suo pretesto per non cedere alle tentazioni del suo giro. Dettava i capitoli del nostro romanzo: paradiso, purgatorio e poi inferno, solo che l’ultimo era tutto mio, mentre lei si godeva Parigi.
Dormii poco e male quella notte e quando mi svegliai la casa era silenziosa. Simona doveva essere già uscita da un pezzo, cominciava presto in ospedale. Le ore di lezione furono un disastro, la mia mente girava ossessivamente da Sara a Simona, e ritorno. Con una scusa disertai il consiglio di classe del pomeriggio e girovagai per ore nell’aria fredda e asciutta di quel dicembre milanese. Mi ripetevo che Sara doveva rimanere, come una bambola, nel cassetto dove l’avevo relegata per anni.
Quando entrai in casa, Simona parlava al telefono e mi fu subito chiaro con chi. Cominciarono a tremarmi le mani, le nascosi nelle tasche. “Era Sara”, disse apparentemente serena. “La festa è domenica sera, ma questo tu già lo sapevi, giusto?”. Non abboccai. “Mi ha lasciato l’indirizzo, le ho detto che l’avresti richiamata”. Presi dalla tasca il telefonino e davanti a lei composi il numero memorizzato quella maledetta sera a teatro. Ebbi fortuna, era occupato, se volevo potevo lasciare un messaggio. Inventai una scusa, ringraziandola per l’invito. Attaccai e mi rintanai nello studio.
Le sere che seguirono Simona mi dava un bacio casto, prima di girarsi sul lato opposto del letto. Avrei voluto abbracciarla, dirle che la amavo, fare l’amore, ma ero bloccato. Sara non chiamò più e i giorni della settimana passarono opachi. Non parlammo più di lei, come se non fosse mai esistita.
La mattina del lunedì successivo ero solo in casa a correggere temi sul tavolo della cucina, quando squillò il telefono. Era Sara, avrei potuto non rispondere, ma non ci riuscii. “Mi sei mancato ieri sera”, iniziò lei. È stata una festa bellissima, c’erano tutti i miei vecchi amici, mancavi solo tu, il più importante”. Giocava ancora con me, come in passato.
“Scusaci, avevamo un impegno importante al Policlinico, ancora grazie per l’invito”, risposi, con il cuore alle tempie.
“Sono io che ti ringrazio, i tuoi fiori sono stati il regalo più bello!”.
Rimasi interdetto, non avevo inviato alcun regalo. Poi capii, e anche lei comprese. Rimanemmo in silenzio, lei in imbarazzo mentre io rimettevo a posto i pensieri.
È stata Simona, vero? È una donna coraggiosa, non so se ne sarei stata capace, fare di tutto perché ci incontrassimo, perché ci parlassimo! Quando quella sera mi ha telefonato per avere il mio indirizzo, mi ha stupito che fosse stata lei a chiamarmi, ma adesso capisco, ti stava mettendo alla prova”.
Mi sentivo girare la testa, ma non ero più il ragazzo che saliva le sue scale due gradini alla volta, sperando ogni giorno che non si stancasse di me.
È stato bello rivederti Sara, ma il nostro rapporto è finito tanti anni fa, e non ci è possibile essere amici. Ti auguro tutta la fortuna che meriti.”
“Addio allora, e ringrazia tua moglie, per il magnifico mazzo di rose.”.