Non esiste un momento della vita dove la speranza si spegne; neppure nella terza età. Per alimentarla possiamo accogliere il supporto della fede, delle relazioni, ma soprattutto stare attenti alle insidie della solitudine
Qualcuno potrebbe ritenere retorico e consolatorio l’interrogativo del titolo, perché la riduzione del tempo futuro dell’anziano indurrebbe necessariamente ad una perdita progressiva di speranza. Come può sperare un vecchio, rendendo così vivibili i propri anni? La speranza più promettente è quella di chi vive giorno per giorno, apprezzando ogni momento la vita. Questo atteggiamento si raggiunge con l’impegno alla relazione, alla vicinanza, all’accompagnamento. La speranza si realizza nel momento in cui la vita non è intesa come conquista personale di spazi, ma come ascolto e condivisione. Il vero nemico della speranza è la solitudine, quella di chi non riesce ad amare, talvolta per una chiusura dell’altro, talaltra per una chiusura volontaria, talaltra ancora per l’impossibilità di costruire un rapporto di significato a causa di difficoltà ambientali. Chi è solo non spera, perché non ha la possibilità di fare qualche cosa di significativo e quindi si concentra sulle proprie personali perdite, sulle malattie, sui disagi psicologici. È molto facile trasformare questa condizione in una critica alla società in termini generali, accusata perché non sarebbe in grado di offrire amore e protezione. Chi, invece, riesce a trovare gli spazi per costruire una relazione è indotto a sperare, perché dall’incontro può nascere qualche cosa di originale, di nuovo, l’attesa per qualche evento. La speranza è un fattore che induce salute; è ben noto che la vita piena di vicinanza con gli altri è destinata a durare più a lungo; al pari di un’adeguata attività fisica, di una dieta salutare, di un’attenzione alla prevenzione delle malattie, la speranza indotta dalla condivisione della vita è un fattore che la prolunga. È oramai un classico della letteratura medico-scientifica l’affermazione di un famoso studio longitudinale, secondo il quale a tavola è più importante la possibilità di incontro e di scambio di attenzioni umane rispetto all’attenzione verso il contenuto di colesterolo nei cibi. Anche se l’affermazione potrebbe essere ritenuta paradossale, indica come il vivere in armonia con gli altri, in famiglia e fuori, ha un peso rilevante per la salute, che può essere paragonato ad importanti interventi preventivi dietetici o farmacologici. È doveroso sottolineare che la predisposizione all’incontro non è compromessa dalla malattia o da altre condizioni di disagio psicosociale. Non raramente capita di incontrare persone gravemente ammalate, che conservano la capacità di relazione anche in condizioni di gravissima limitazione funzionale. Ricordo, ad esempio, gli ammalati di sclerosi laterale amiotrofica, che attraverso il supporto di tecnologie avanzate, riescono a comunicare muovendo gli occhi sullo schermo di un computer. Sono colloqui nei quali la vita trionfa sulla rinuncia, sulla chiusura, sulla depressione, sul desiderio di fine. E la vita in queste circostanze è accompagnata dalla speranza, cioè dalla ricchezza psicologica indotta dalla relazione, anche se espressa attraverso modalità molto difficili. Non si deve pensare che la sofferenza si annulli; sarebbe non realistico, però la speranza è in grado di convivere con qualsiasi difficile realtà. Nemica della speranza è la depressione, malattia che riduce la voglia di vivere, che impedisce di apprezzare la luce, la vicinanza: nulla assume rilievo quando il buio domina il passato, il presente e il futuro. Secondo alcuni studi epidemiologici, la depressione si accompagna al 15% delle persone in età non più giovane. Deve essere curata con gli strumenti della medicina, non necessariamente farmacologici, ma anche di tipo psicologico; è una sofferenza da non trascurare né giustificare, come fosse un accompagnamento necessario della vecchiaia. Peraltro, è largamente dimostrato che la depressione in età avanzata è un fattore che riduce in modo rilevante, oltre alla qualità, la stessa durata della vita. Amica della speranza dell’anziano è invece la fede, per chi ha la fortuna di possederla; amica è anche una città che accoglie e assiste le persone meno fortunate. Ad esempio, dove sono state realizzate, le “Comunità amiche della demenza” sono state attrici di speranza, perché hanno dato senso ai malati e alle loro famiglie, sottraendoli alle incomprensioni, al nascondimento e alla fatica dell’assistenza non condivisa.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulla demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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