L’Università dell’Indiana ha realizzato “Brainoware”, il primo processore che combina un cervello umano e un hardware elettronico. Una tecnologia che si prospetta estremamente complessa ed eticamente pericolosa.
Nel 2013 Markus Diesmann dell’Istituto di Neuroscienze e Medicina di Jülich, capo del team tedesco-nipponico che lavorava sul supercomputer K dell’Istituto di scienze computazionali avanzate Riken, in Giappone, si lasciò andare a una premonizione. «Simulare l’intero cervello a livello della singola cellula nervosa e delle sue sinapsi sarà possibile con computer su scala exa (funzionanti a una velocità di 1018 byte/secondo) che si spera disponibile entro il prossimo decennio», affermò. Il suo ottimismo nasceva dal fatto che K – che opera in scala peta (1015 byte/secondo) – era riuscito, con i suoi 82mila processori e il petabyte di memoria, a simulare circa il 2% delle attività che svolge il cervello umano in un secondo. Aveva impiegato 40 minuti.
Brainoware, dal computer che imita il cervello al cervello che imita il computer
Oggi, solo in Europa, esistono due supercomputer in scala esa, ma la previsione di Diesmann rimane spropositatamente ottimistica. Quello che svolgono gli 86 miliardi di neuroni in costante comunicazione reciproca, connessi tra loro da circa un biliardo di sinapsi, di un singolo cervello umano è ancora infinitamente lontano dal poter essere svolto dalle macchine. Intelligenza artificiale o non intelligenza artificiale.
Alcuni scienziati perciò hanno deciso di rivoltare il problema. Invece che i computer che imitano il cervello si sono attivati per studiare come i nostri cervelli potessero imitare i computer. Hanno ideato così i biocomputer, che utilizzano la plasticità, la memoria e l’immensa capacità di calcolo del nostro encefalo per migliorare le abilità dei calcolatori. Ovvero uniscono microcervelli, “organoidi” prodotti a partire dalle cellule staminali, utilizzati come processori e memorie, e un hardware elettronico che invia loro gli input e riceve e interpreta gli output che elaborano.
Il primo è stato realizzato da un team di scienziati dell’Indiana University di Bloomington (USA) e il computer si chiama Brainoware. Riesce, grazie a un’interfaccia di IA, a elaborare informazioni, eseguire compiti computazionali semplici e riconoscere il linguaggio parlato, anche se in modo limitato. Attualmente il sistema non è molto preciso e sarà una sfida creare organoidi cerebrali sufficientemente grandi per affidargli compiti più complessi.
Una tecnologia eticamente discutibile
È solo l’inizio di una tecnologia nuova, che promette risultati importanti, in particolare nell’abito dei meccanismi dell’apprendimento, dello sviluppo neurale e nelle implicazioni cognitive delle malattie neurodegenerative. Una tecnologia che però, più di ogni altra, rischia di degenerare dal punto di vista etico.
Infatti, se oggi siamo al livello di relativamente poche cellule cerebrali a diversi stadi di sviluppo, il progresso delle ricerche in questo ambito – legato a filo doppio con quello dell’utilizzo di organoidi in ogni parte del corpo umano con finalità terapeutiche – causerà sicuramente una rianalisi della differenza che passa tra intelligenza biologica e intelligenza artificiale. Ancor più dei chip Neuralink da impiantare nel cervello che la società di Elon Musk sta finendo di mettere a punto. Ma con quali risultati?
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