Fuori dal mondo produttivo nel 2050 ci saranno più pensionati che lavoratori. È l’allarme che è stato lanciato dall’Ocse sul futuro del nostro Paese
Di questo passo, entro il 2050, ci saranno più pensionati che lavoratori. È lo scenario tracciato dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sul mercato del lavoro. Un destino, quello dell’Italia, affatto immodificabile: a patto che si intervenga. «Nel nostro Paese c’è molto da fare per promuovere la partecipazione sul mercato del lavoro dei senior». A dirlo è Stefano Scarpetta, direttore dell’Organizzazione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’Ocse: «Sulla base degli attuali schemi pensionistici – sottolinea – il numero di persone over 50 inattive o pensionate che dovranno essere sostenute dai lavoratori potrebbe aumentare di circa il 40%, arrivando nell’area Ocse a 58 su 100».
Cosa significa questo dato?
Che se è vero che l’Italia sta affrontando un processo di invecchiamento della popolazione, è anche vero che viviamo più a lungo e meglio. Come è vero inoltre, però, che ciascun lavoratore dovrà sostenere oltre che se stesso – o al massimo il partner e i figli – anche un senior inattivo. Una condizione insostenibile perché vuol dire gravare i lavoratori di un carico estremamente importante. Cosa mai successa prima, non in queste proporzioni.
Come è possibile, allora, invertire la tendenza?
I governi devono intervenire per promuovere maggiori e migliori opportunità di lavoro in età avanzata, per proteggere gli standard di vita e la sostenibilità delle finanze pubbliche. Ritardando l’età media in cui i lavoratori più anziani vanno in pensione e riducendo il divario di genere nella partecipazione della forza lavoro in età più giovane, l’aumento medio per l’area Ocse potrebbe infatti essere ridotto al 9%.
Ma cosa determina lo scenario che potrebbe verificarsi entro il 2050?
C’è stata una combinazione di scarsi incentivi a continuare a lavorare in età avanzata, riluttanza dei datori di lavoro ad assumere e trattenere lavoratori più anziani e investimenti insufficienti nell’occupabilità per tutta la vita lavorativa. Per far sì che i senior restino più a lungo sul mercato del lavoro occorre considerare le loro esigenze e renderli anche più appetibili per i datori di lavoro.
Cosa si può fare quindi per far fronte a questa situazione?
È necessaria una maggiore flessibilità nell’orario e migliori condizioni di lavoro per promuovere una maggiore partecipazione a tutte le età. Turni molto lunghi possono scoraggiare alcune persone anziane o impedire – soprattutto alle donne – la permanenza in servizio. Non dimentichiamo che spetta ancora spessissimo a loro il ruolo di cura in famiglia che, andando in là con gli anni, significa non solo aiuto ai figli ma anche cura dei nipoti. Le nuove tecnologie digitali permettono il telelavoro, di lavorare da casa. Tutti strumenti che consentono di ridurre lo stress e la fatica. Insomma, la rivoluzione digitale può accompagnare questa vita multifase.
Quando suggerisce di lavorare sull’occupabilità dei senior, cosa intende?
Investire nelle competenze dei lavoratori più anziani. Molti mostrano infatti livelli più bassi di prontezza digitale rispetto ai loro figli e nipoti (l’Italia è agli ultimi posti) e partecipano molto meno alla formazione professionale rispetto ai lavoratori più giovani. Quello su cui bisogna lavorare è quello che gli economisti definiscono “la domanda”, cioè bisogna creare le condizioni per cui gli imprenditori, i datori di lavoro mantengano i senior nelle loro imprese o ne assumano nel caso siano in cerca di nuovo personale.
Come giudica, dunque, misure come “Quota 100”?
Si tratta di misure di flessibilità in uscita che, in qualche modo, erano già state introdotte anche in precedenza, solo che con forme diverse. A mio avviso c’è sì bisogno di flessibilità in uscita, ma occorrono regole molto chiare e opportunità di uscita non uguali per tutti. Per chi ha iniziato a lavorare precocemente o ha un impiego usurante, che ben venga il congedo anticipato dal lavoro. Per gli altri si possono trovare soluzioni che rendano compatibile e interessante la permanenza in ruolo. È vero: la pensione è un elemento importante, anche perché le persone fanno previsioni su di essa. Cambiare troppo spesso le regole non giova e crea un certo discontento: il fenomeno degli “esodati” ce lo ricorda molto bene.
Una più lunga permanenza sul mercato del lavoro non disincentiva l’ingresso dei giovani?
In realtà non c’è nessuna evidenza secondo la quale facendo partire prima i senior dal mercato del lavoro si creino opportunità per i giovani. In Inglese si chiama the lump of labor fallacy, ossia l’idea che ci sia un numero fisso di posti di lavoro e che per far entrare qualcuno, bisogna far uscire qualcun altro. Le nostre economie sono dinamiche e creano posti di lavoro a seconda del dinamismo dell’economia stessa. Se c’è una relazione, è una relazione positiva: Paesi che hanno tassi di partecipazione dei senior più elevati sono anche i Paesi con livelli di disoccupazione dei giovani più bassi in quanto economie più dinamiche, che creano occupazione e crescono più rapidamente.
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