Bastano due ore a settimana per allungare la vita e mantenere in forma mente e corpo. Di attività fisica? No, di volontariato. Secondo una recente ricerca pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine, infatti, chi fa del bene agli altri finisce per fare del bene anche a stesso, migliorando la sua salute e la qualità della sua vita.
Due piccioni con una fava
I ricercatori hanno condotto un’indagine su 130mila persone over 60 seguite per 4 anni. Hanno scoperto così che chi dedicava parte del proprio tempo ad aiutare gli altri (almeno due ore a settimana) otteneva punteggi superiori in molti dei 34 parametri indicativi del benessere psico-fisico. In generale i volontari vivevano più a lungo, erano fisicamente più in forma, più ottimisti e più socievoli rispetto a chi non era impegnato attivamente nella solidarietà.
«Gli esseri umani sono creature sociali per natura. Forse è per questo che le nostre menti e i nostri corpi vengono premiati quando concediamo del tempo agli altri. I nostri risultati mostrano che il volontariato tra gli anziani non solo fa bene alla comunità, ma arricchisce la nostra vita rafforzando i legami con gli altri, aiutandoci ad avere uno scopo, migliorando il benessere e proteggendoci dalla solitudine, dalla depressione e dalla disperazione», ha spiegato Eric S. Kim del Dipartimento di Scienze sociali e comportamentali dell’Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, a capo dello studio. Insomma, non c’è nulla di male nel decidere di fare bene agli altri anche per fare del bene a se stessi. È come prendere due piccioni con una fava. Il beneficio raddoppia.
Ma non illudetevi, non è una terapia
Non bisogna illudersi però: le attività di sostegno al prossimo non hanno il potere di curare patologie come il diabete, l’ipertensione o l’artrosi. Gli scienziati infatti non hanno trovato alcuna associazione tra il volontariato e le malattie croniche. «La crescente popolazione anziana possiede un’ampia gamma di abilità ed esperienze che può essere sfruttata per migliorare la società attraverso il volontariato. Incoraggiare il volontariato potrebbe essere un modo innovativo per riuscire contemporaneamente a valorizzare la società e a promuovere un l’invecchiamento in buona salute nella popolazione anziana», concludono i ricercatori.
L’altruismo è contagioso, “involontariamente” contagioso
Come si decide di diventare allora volontari? È paradossale, ma può capitare di diventarlo anche “involontariamente”. Perché l’altruismo è contagioso e si propaga da un individuo ad un altro in maniera estremamente facile con una modalità che fortunatamente nessuna malattia infettiva utilizza: basta osservare qualcun altro mentre compie una buona azione per volerlo imitare.
È quanto dimostra un’altra ricerca pubblicata su Psychological Bulletin che si interroga anche sulla dinamica del contagio. Gli autori di questo studio sono convinti che a essere trasmesso sia il desiderio di fare del bene di per sé, ma non la specifica azione di cui si è stati testimoni. Chi osserva un volontario impegnato in un’attività con persone disabili non sarà spinto necessariamente a operare in una comunità simile. Potrà però decidere di prestare aiuto in mille altri modi. «Abbiamo scoperto che le persone possono dedicarsi rapidamente ad attività solidali. Impegnandosi in azioni diverse da quelle cui hanno assistito e prestando il loro aiuto in contesti diversi rispetto a quelli del modello di riferimento», affermano i ricercatori.
Dallo stesso studio è emerso che le forme più contagiose di altruismo sono quelle che fanno del bene all’intera comunità. Per intenderci: il favore alla mamma, all’amico o al vicino di casa non induce all’emulazione tanto quanto un’azione degna del buon samaritano. Insomma, vale la pena farsi infettare, perché il “virus” del volontariato fa bene a tutti, a chi lo fa e a chi lo riceve.
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