La storia di Janet Burns non è insolita, non “fa notizia”, non si distingue da quella di tanti altri suoi coetanei. È la storia di una signora americana di 75 anni che, invecchiando, ha cominciato a soffrire di insonnia, a svegliarsi di cattivo umore, a perdere interesse per le cose che un tempo la appassionavano.
Non è la prima e non è l’unica persona over 65 ad esserci passata. Per il New York Times però la sua è una storia emblematica, degna di una visibilità mondiale (finire sul New York Times vuol dire fare il giro del mondo). Perché Janet non ha attribuito il suo disagio al passare degli anni, non lo ha accettato come un aspetto fisiologico dell’invecchiamento, ma ha cercato di superarlo con l’aiuto di uno psicoterapeuta. E ci è riuscita. Così la sua storia è diventata il pretesto per lanciare già nel titolo dell’articolo un messaggio inequivocabile: non si è mai troppo vecchi per parlare con qualcuno delle proprie difficoltà (ovvero You are not too old to talk to someone).
È davvero così? È davvero utile la psicoterapia in età avanzata? Ne abbiamo parlato con Elisabetta Pedrazzoli, medico chirurgo specializzato in psicoterapia cognitivo-comportamentale, che si è dedicata principalmente a questa fascia di popolazione seguendo anche affette da malattie organiche degenerative oppure invalidanti (come il dolore cronico, il morbo di Parkinson, ecc.).
Secondo i risultati di un recente studio la psicoterapia per la depressione funziona negli anziani tanto quanto nei giovani. Vale anche per disturbi di altro tipo?
Vale per qualunque difficoltà che si abbia il desiderio di superare. Alcuni miei colleghi ritengono che dopo i 50 anni la psicoterapia perda di efficacia, perché non riesce più a modificare schemi maladattivi e comportamenti disfunzionali adottati per tanti anni. In base alla mia esperienza non è così. Sono arrivata a seguire persone di più di 85 anni che hanno sicuramente tratto beneficio dalla psicoterapia. Riconosco che con i pazienti anziani si instaura una relazione differente, ma non per questo meno valida da un punto di vista terapeutico.
In che senso? Cosa c’è di diverso nel rapporto terapeuta-paziente quando il paziente ha superato i 65 anni?
Intanto dobbiamo distinguere gli anziani in tre differenti fasce di età, prendendo per buona la suddivisione anglosassone. Ci sono i cosiddetti young old, che vanno dai 65 ai 75 anni, gli old old, dai 75 agli 85, e gli oldest old dagli 85 anni in su. Quello di cui parlo vale soprattutto per le categorie di persone più avanti con gli anni. Gli anziani, in genere, instaurano con il terapeuta un rapporto prevalentemente umano privo di sovrastrutture. Alcuni colleghi considerano questa relazione squalificante perché ritengono che non gli venga riconosciuto un ruolo professionale. A mio parere la persona anziana si libera di quelli che considera inutili formalismi e preferisce un approccio diretto e più intimo. Un esempio concreto: ho avuto una paziente che mi ripeteva spesso quanto le ricordassi la figlia facendomi capire quanto per lei fosse importante il rapporto con la famiglia. Poco prima delle vacanze di Pasqua si è presentata in studio con due uova di cioccolata per i miei figli, immaginando che io non le avessi comprate e dimostrandomi così la sua vicinanza. Ecco secondo me, gli anziani hanno bisogno di un rapporto meno filtrato e più genuino. Si capisce subito che la condivisione della loro vita personale, la manifestazione informale delle loro emozioni e l’approccio non giudicante sia la chiave per una comunicazione produttiva. Non penso che ci sia nulla di male in questo.
Cambia l’approccio, ma cambiano anche le problematiche. Quali sono i disagi più frequenti negli anziani?
Sul fronte delle relazioni c’è sicuramente un’attenzione maggiore alle difficoltà con i figli piuttosto che con il compagno o la compagna. Ma a farla da padrone è il tema delle perdite, inteso sia come perdita di una persona cara sia come perdita di uno status sociale in seguito al pensionamento. Un capitolo importante poi è quello delle malattie, sia delle proprie che della persona di cui ci si prende cura. Nel primo caso si ha difficoltà soprattutto ad accettare la mancanza di autonomia. Nel secondo caso, il disagio più frequente è dovuto al senso di colpa per non essere in grado di fornire l’aiuto necessario e a volte di avere sentimenti contrastanti con l’affetto che si esprime attraverso la cura. Bisognerà in quest’ultimo caso, aiutare i caregiver a liberarsi dei sensi di colpa facendo capire loro l’importanza di delegare, almeno in parte, l’accudimento. Perché il tempo tolto alla persona assistita si traduce sempre in un recupero di energie da parte del caregiver che porta spesso ad una migliore qualità delle cure.
Una frase ricorrente negli anziani è “oramai… alla mia età…”. Secondo lei lo si pensa anche della psicoterapia? C’è chi si sente in colpa ad andare dallo psicoterapeuta a una certa età, come se si stesse sprecando tempo e soldi?
Diciamo che è la minoranza. La maggior parte delle persone arriva dallo psicoterapeuta perché spinta dai figli e quindi in qualche modo autorizzata a prendersi cura di sé. In generale ai nostri tempi l’idea di ricercare un benessere psicologico in età avanzata è oramai “sdoganata”. Molte persone sono motivate dal desiderio di “chiudere i cassetti della loro vita” rimasti ancora aperti. Questa metafora è stata più volte usata dai miei pazienti.
Che consiglio darebbe agli anziani di domani. Come si affronta la vecchiaia in serenità?
Una delle grandi sfide dell’anziano è quella di costruirsi un nuovo ruolo sociale. Ci si riesce più facilmente se nel corso della vita sono state caricate più frecce al proprio arco. Intendo dire se si sono coltivati interessi, passioni, hobby. Allora riempire con soddisfazione il tempo libero che inevitabilmente si crea sarà più semplice. Bisogna riconoscere che in questo sono più brave le donne rispetto agli uomini. Il mio consiglio è quello di fare, esplorare, mettersi alla prova per scoprire cosa piace e cosa non piace. Non tutti hanno una passione, è vero. Ma le passioni si trovano, tentativo dopo tentativo. Si può iniziare ad andare al cinema da soli tanto per vedere che effetto fa, iscriversi a un corso di lingua, ecc.
I cinema però sono chiusi e le scuole di lingue anche. In epoca di pandemia l’esplorazione rischia di non andare oltre le mura domestiche. E, a meno che non si viva in una reggia, è difficile scoprire qualcosa di nuovo restando a casa…
Non è vero. Ci sono mille attività piacevoli a cui ci si può dedicare. La maglia, l’uncinetto, leggere, dipingere, ascoltare musica. E poi c’è Internet con una miniera inesauribile di offerte. Una mia paziente con il Parkinson che vive isolata nella campagna comasca si è iscritta a un corso di zumba on line ideato proprio per pazienti parkinsoniani. C’è davvero l’imbarazzo della scelta.
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