Doriana Leondeff racconta il rapporto del cinema con l’anzianità, la possibilità di narrare una storia in sette minuti e il ruolo del donne nel mondo del cinema. Grazie anche alla sua veste di membro della giuria di Corti di Lunga Vita, questa sera al Cinema Troisi di Roma saranno svelati i vincitori della sesta edizione del concorso.
Dopo la laurea in Lettere Moderne all’Università di Roma La Sapienza, Doriana Leondeff si diploma in Sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. All’inizio della sua carriera cinematografica, ha lavorato come assistente alla regia nel film Il tempo dei gitani di Emir Kusturica. Con Pane e tulipani, diretto da Silvio Soldini, ha vinto i più prestigiosi premi in Italia (Ciak d’oro, Premio Flaiano, Nastro d’argento, David di Donatello) e ha ottenuto una candidatura all’European Film Awards (Parigi 2001) per la miglior sceneggiatura. Con La giusta distanza, diretto da Carlo Mazzacurati, ha vinto il Nastro d’argento per il miglior soggetto (Taormina 2005). Dal 2001 fa parte della giuria del David di Donatello e dallo scorso anno è anche membro di giuria per Corti di Lunga Vita.
Quest’anno ricopre il ruolo di giurata di Corti di Lunga Vita per la seconda volta: quali differenze ha notato dalla scorsa edizione?
Quest’anno è stato complicato scegliere le opere da premiare, ma i corti che abbiamo scelto sono quelli che abbiamo apprezzato di più. È sempre interessante notare come a cimentarsi con il tema dell’anzianità siano principalmente dei giovani e il loro sguardo sulla terza età – che ormai è un concetto molto ampio – è spesso influenzato dal timore di ciò che sperano arrivi il più tardi possibile.
Pensa che la narrazione dell’anzianità nel cinema soffra ancora di pregiudizi e stereotipi?
Purtroppo, sì. Anche se negli ultimi anni ci sono stati film che sono andati in altre direzioni. Ho visto di recente E la festa continua di Robert Guédiguian, un film corale che mette in scena la storia d’amore tra due persone “mature”. Tutto avviene durante i preparativi di un matrimonio in cui la madre del futuro sposo e il padre della futura sposa si incontrano e nasce tra loro un sentimento molto bello in una fase della vita in cui si tende a pensare che non possa più accadere. In particolare, c’è una scena in cui questa donna racconta al figlio di essere andata a letto con il futuro suocero e il figlio scoppia a ridere, ridicolizzando un po’ le emozioni della madre che se ne risente.
È un tema, quello dell’anzianità, che a me sta molto a cuore perché già più di vent’anni fa con Pane e tulipani si parlava di una storia d’amore tra due personaggi avanti negli anni a cui sembrava che la vita non potesse riservare nient’altro.
Tra i requisiti che le opere iscritte a Corti di Lunga Vita devono rispettare c’è anche quello della durata di sette minuti. Quali sono le opportunità e le sfide di una narrazione con questo timing?
In sette minuti si può raccontare tanto. Ormai è una durata ufficializzata in questo tipo di concorsi e rassegne: può sembrare un tempo molto limitato, ma non lo è. Certo, è necessario che ci sia un’idea forte. Servono personaggi chiari e una storia con un fuoco molto preciso. Spesso in questi casi c’è la tentazione di avere un finale un po’ ad effetto che ribalti la narrazione del corto, ma che può essere anche controproducente. Quindi invito sempre chi scrive – e anche me stessa – a guardare dentro ai personaggi, a cercare qualcosa di intimo, facendosi trasportare da loro senza imporre troppo una trama.
Lo scorso anno ha ricevuto il Women in Cinema Award, il riconoscimento che valorizza il talento delle donne nell’industria cinematografica e nel mondo delle arti italiane e internazionali. A suo avviso è ancora così forte il gender gap in questo settore?
Sicuramente c’è, anche se nel mio caso la strada non è stata particolarmente problematica. Quando mi ritrovo a parlare con delle colleghe e amiche, però, mi rendo conto che la nostra generazione ha dato per scontate delle cose. Sapevamo di doverci confrontare con un universo prettamente maschile e ci comportavamo di conseguenza. Sicuramente io ho evitato una serie di situazioni che sapevo avrebbero creato dei problemi, ma oggi, a posteriori, mi chiedo quanto siamo state condizionate e come (e se) avremmo potuto “ribellarci”. Credo che in questo senso si sia fatto tanto, ma in Italia il gender gap rimane una piaga.
Parlando di donne e di discriminazione non possiamo non citare il successo di Paola Cortellesi con C’è ancora domani ai David di Donatello, di cui lei è membro di giuria. Quale crede che sia il motivo di tanto successo?
Al di là di tutti i premi ricevuti, il film di Paola Cortellesi ha sicuramente intercettato una necessità, un sentire comune. Io l’ho visto in sala e la gente ha applaudito e si è commossa alla fine. Quando una pellicola ha un successo di questo tipo al botteghino esce dall’ambito cinematografico e diventa un fenomeno culturale che va letto come tale. Evidentemente c’era proprio bisogno di una storia che dialogasse in questo modo con il pubblico.
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