E finalmente siamo al mare. Abbiamo avuto paura di non poterci tornare. Di essere costretti in un metro quadro recintato, di doverci buttare in acqua di corsa, senza sostare sulla spiaggia, senza chiacchierare, senza poter spalmare l’olio sulle spalle di un’amica. Abbiamo avuto paura di dover prendere il sole con la mascherina e tenerci per tutta l’estate il mento, il naso e mezze guance bianche, mentre la fronte è abbronzata.
Abbiamo avuto paura di non poter varcare i confini della regione in cui viviamo, dove magari il mare non c’è, e neanche la montagna. Abbiamo avuto paura che qualche disobbedienza altrui (un rave, un funerale, un assembramento da apericena) potesse costarci una nuova stagione di arresti domiciliari. Abbiamo avuto paura di morire, soprattutto noi, noi che abbiamo “50 e più”, anche parecchio di più (almeno per quanto mi riguarda). Abbiamo avuto la sensazione, netta, di essere i più fragili, i più vulnerabili, i più soggetti a contagio, quelli che rischiavano di più, che si ammalavano in forme più gravi. Abbiamo avuto paura perché ce l’hanno detto in tutti modi che dovevamo avere paura. Perché i nostri figli e i nostri nipoti davano a se stessi l’ordine di non avvicinarsi a noi, dato che, anche se in buona salute, potevano portare il virus, e il virus a loro avrebbe fatto appena il solletico, mentre, noi, ci avrebbe spediti dritti in terapia intensiva. La figlia di una mia amica che vive a Milano si è trasferita a casa di sua madre e tutti i giorni le ha fatto la spesa, è andata per lei in farmacia, perché non voleva che uscisse di casa.
Abbiamo avuto paura perché l’età media dei morti e dei morenti era omogenea e maledettamente alta. La peggio l’hanno avuta gli 80enni e i 90enni, ma anche i 60enni e i 70enni sono entrati, pur se in modo meno massiccio, nella statistica dei decessi.
Abbiamo avuto paura che il nostro equilibrio di anziane attive e reattive, resilienti e piene di progetti per il futuro, potesse saltare da un momento all’altro. Abbiamo avuto paura di aver imboccato il tunnel finale, quello da cui non si esce. Abbiamo avuto paura di finire in miseria. Una miseria interclassista e intergenerazionale. Una povertà figlia dei negozi chiusi, del turismo bloccato, dei risoranti con la saracinesca abbassata, delle librerie sbarrate, dei set cinematografici fermati, delle autostrade deserte, dei cinema, dei teatri e delle sale da concerto bui, vuoti, senza musica né film, senza spettacoli. Una povertà di vecchi e di giovani. Di tutti. La povertà della messa in mora dei consumi, del “restate a casa”, dei soldi che non passano di mano.
Abbiamo avuto paura che, a forza di reprimerli, i nostri desideri fossero evaporati. Ci siamo ritrovati, a fine emergenza, senza la voglia di uscire di casa. Ci siamo scoperti a chiederci: ma in fondo, dove mi va davvero di andare? Un sacco di persone hanno continuato a lavorare da casa, anche se avrebbero potuto tornare in ufficio. Forse l’embargo dell’abbraccio, la punibilità del bacio, l’obbligo di distanza precauzionale che non risparmia neanche quel momento della Messa in cui ti dicono “Scambiatevi un segno di pace”, ci hanno scoraggiati.
Abbiamo avuto paura l’uno dell’altro e di noi stessi. Abbiamo avuto paura di diventare cattivi, come i lupi quando devono difendersi, vittime di quella ferocia senza amici che è delle bestie se hanno fame.
Ma adesso finalmente siamo al mare. Il sole ci spalma addosso la vitamina D, l’aria pulita dal vento promette ossigeno ai polmoni, lo iodio ci disinfetta dentro. Stiamo sdraiati, gli occhi chiusi, i sensi all’erta. Le gocce sono quelle della risacca, dell’onda che si spacca sullo scoglio. E cerchiamo di dimenticare la triste primavera che è seguita all’allarme d’inverno. Se il virus tornerà, e le cassandre ce l’hanno già detto, saremo pronte, saremo pronti. Abbiamo visto come si fa. Ci difenderemo.
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