«Cara Ravera, Lei parla sempre bene della vecchiaia, che è una parte della vita libera e felice, tutti quelli che la leggono sono contenti. Ma forse dovrebbe smettere. Perché gli oltre 50mila morti di questa pandemia terribile erano vecchi, avevano – la maggioranza – fra gli ottanta e gli ottantatré anni. Erano più maschi che femmine. Alcuni erano malati di qualcosa, altri no. Sono morti da soli».
La lettera è più lunga e meriterebbe di essere integralmente pubblicata. Non mi era mai successo di essere criticata per il mio eccessivo ottimismo, in genere sono una di quelle da bicchiere mezzo vuoto. Ma accetto volentieri la reprimenda.
Da più di vent’anni – non ne avevo ancora cinquanta – mi batto per ripulire l’immagine del terzo e del quarto tempo della vita umana dagli stereotipi che la sporcano, che la rendono difficile da abitare, come un paese odiato, una patria negata e sottoposta al disprezzo di chi la attraversa. Da più di vent’anni cerco di valorizzare i capelli bianchi, per chi non ha più voglia di tingerseli. Da più di vent’anni cerco di combattere il razzismo contro i non più giovani, i non più “produttivi”, le non più “fertili”. Da più di vent’anni mi sforzo di immaginare un modo di avvicinarsi alla fine, senza soffrire di solitudine e isolamento. Riunirsi in gruppi di amici? Prendere casa insieme? I più benestanti aiutano i più poveri, e si affronta insieme questa strada in salita, la parte dura della vita? Ne ho immaginate tante di soluzioni. Da più di vent’anni mi impegno moltissimo per restare di buon umore, per pensare positivo, per promuovere l’inevitabile come fosse una magnifica occasione per capire il senso delle cose, l’essenza del nostro esistere, il mistero che circonda il nostro transito su questa terra.
Poi arriva la pandemia e manda per aria tutte le mie buone intenzioni. I più vecchi diventano la parte fragile della Nazione, abitano le “Erre Esse A”, dimore così diverse da una vera casa da diventare un triste acronimo. È da quelle mura che escono i corpi senza vita di chi non ce l’ha fatta. È uscendo in una bara di legno da quelle strutture che i vecchi diventano un numero, una statistica inquietante, un bilancio doloroso. Per quanto mi sforzi, non posso che unirmi al pianto, non ho più niente da dire.
E allora incomincio a pensare alle “Erre Esse A”, queste fabbriche di contagio e mi chiedo: che cosa c’è di sbagliato in queste Residenze per Anziani? Perché si sono trasformate in focolai infetti? Che razza di posti sono? In Italia sono l’“Ultima Spiaggia”, il luogo dove si ritirano persone sole che non ce la fanno più a vivere da sole? Sono, le RSA, la sconfitta delle famiglie? Perché un tempo c’era posto, accanto al fuoco, per i padri e i padri dei padri, per le madri e per le madri delle madri e dei padri, per i bambini e per i ragazzi, e adesso no?
Viviamo da decenni in piena dispersione. Piccoli nuclei: una madre separata e un bambino. Una coppia senza figli. Vecchiaie recluse. Una donna sola coi suoi gatti. Un uomo solo con le sue ossessioni. Forse dovremmo costruire progetti abitativi diversi. Niente “Baggine” con centinaia di letti, ma villaggi in cui ciascuno ha il suo spazio, c’è un centro di assistenza sanitaria e ci sono servizi centralizzati per tutti. Non si potrebbe stornare una parte degli aiuti europei e costruire strutture umane per accogliere e semplificare vite che stanno arrivando al termine? Il maledetto 2020, palindromo e bisestile, è finito.
Vogliamo mettere al primo posto questo progetto, fra i propositi per l’anno nuovo?
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