Nel suo ultimo libro il giornalista inviato de La Stampa, testimone della storia recente in tanti luoghi del mondo, dall’Africa al Medio Oriente, riflette proprio sulla narrazione delle tragedie collettive e sullo smarrimento della pietà.
«Mi chiedo: perché da questa parte di mondo, la nostra, non riusciamo più a provare compassione verso quell’altra parte di noi, i sofferenti, i vinti, tutti gli uomini che scomodamente ci troviamo di fronte sui giornali, in televisione, su internet?». Domenico Quirico, giornalista inviato de La Stampa, testimone e narratore diretto di tanti luoghi del mondo, apre con questo interrogativo il suo ultimo libro, Testimoni del nulla, edito da Laterza.
Un racconto personale che offre una serie di istantanee su tragedie collettive che hanno segnato la storia recente del mondo, alcune concluse come il genocidio in Ruanda, altre mai finite come la guerra in Siria; con la consapevolezza di una pietà sempre più rarefatta da parte di chi legge, ascolta, osserva.
È un libro che vuole affrontare molto umilmente un tema che ritengo centrale: la rarefazione della pietà e l’emergere di un’indifferenza di massa verso le tragedie, il dolore, la sofferenza degli altri, di quelli che non stanno in questa parte di mondo – ha spiegato Quirico in occasione del suo “Incontro con l’autore” il webinar di Spazio50 che lo ha visto protagonista -. Ovviamente ci sono anche minoranze che si interessano, aiutano, si battono per la sofferenza degli altri, ma restano appunto minoranze. Tutti gli altri sono totalmente indifferenti a quello che accade appena al di là della circonferenza geografica, psicologica e umana di quello che siamo noi, la parte ricca del mondo, che resta tale nonostante le nostre crisi e povertà.
Testimoni del nulla si apre con il racconto della carestia in Etiopia, l’ultima vicenda che secondo lei, negli anni Ottanta, fu in grado di suscitare una partecipazione emotiva collettiva. Cos’è successo dopo?
Il libro inizia con questa vicenda della carestia in Etiopia che, secondo me, è stata l’ultima in cui gli uomini del “primo mondo” si sono mobilitati per la tragedia degli altri. Pensiamo alle star del rock (con l’organizzazione del “Live Aid” del 1985, n.d.r), ma anche alla gente comune. Tutto nacque da un operatore della Bbc che riuscì ad arrivare in uno di questi campi dove la gente moriva di fame, e due minuti di queste immagini mandate in onda determinarono una mobilitazione universale che smosse persino le cancellerie e i regimi, costretti a partecipare agli aiuti per non essere spazzati via dall’indignazione della gente. Poi è subentrata l’indifferenza, per non dire la negazione, che è uno dei vizi maggiori di questa società, dove le emozioni si sollevano solo se la pandemia, l’attacco terroristico, il terremoto, ci riguardano. Faccio un esempio: la guerra in Siria in dieci anni ha prodotto 500mila vittime e non abbiamo fatto assolutamente nulla affinché uno di quei morti restasse in vita. E non parlo dei governi che seguono le loro logiche, ma della coscienza collettiva dell’Occidente che ha lasciato scorrere quel conteggio giorno dopo giorno, senza indurre o costringere le proprie istituzioni a intervenire. Un caso ancora più recente, accaduto dopo la pubblicazione del mio libro: la guerra in Nagorno Karabakh, che avrebbe dovuto scatenare una qualche reazione solo perché erano coinvolti gli armeni, già vittime del primo genocidio del Novecento.
Al disinteresse collettivo spesso si somma la scarsa attenzione che anche l’informazione dedica a certi luoghi del mondo. Perché?
I giornali riflettono quello che i lettori, ormai rimasti in pochi, chiedono. Se nessuno si interessa, l’informazione non se ne occupa, anche se dovrebbe essere il contrario. Perché dovrebbe fornire invece testimonianza, informazioni reali di prima e non di quarta mano sulle quali il lettore, lo spettatore – che è cittadino – dovrebbe poi costruire le sue scelte. Ma questo non avviene più. Pensiamo alla Libia che interessa solo per due aspetti, il petrolio e i migranti. Nel momento in cui con un accordo “lurido” abbiamo ottenuto che il migrante non arrivi più o arrivi in termini numericamente inferiori rispetto ad una volta, quello che succede in Libia non ci interessa.
Non è un paradosso, nell’era dell’informazione in tempo reale in cui siamo immersi?
Più abbiamo immagini e più diventiamo indifferenti. Non è la mancanza, ma la troppa documentazione che ci rende così. La guerra siriana l’abbiamo vista tutti, c’è gente che è morta per scattare quelle immagini, ma questo non ha determinato alcuna reazione. Con i migranti non è nemmeno un problema di immagine perché sono qui fisicamente e nemmeno questo ha innescato la pietà, semmai il trionfo della xenofobia. Il problema non è dunque la quantità o la qualità dell’immagine, ma la reazione a quell’immagine, che segna un cambiamento molto pericoloso nella coscienza dell’Occidente, il venir meno dell’aderenza che ognuno di noi deve avere ad alcuni principii che reggono il nostro ruolo nella storia.
A proposito di migranti, lei stesso ha affrontato quel viaggio nel Mediterraneo per poterlo raccontare…
L’ho fatto in nome di un principio elementare del giornalismo, che è quello di raccontare quello che si è vissuto, non quello che ci è stato raccontato. Non sono neanche l’unico che ha fatto il viaggio con i migranti, che ne ha seguito i passi. Se abbiamo deciso di condividere quell’evento, così come il destino dei siriani, dei ruandesi, dei somali, lo abbiamo fatto per fornire la prova della realtà della narrazione. La gente ha visto la realtà che gli abbiamo portato in casa attraverso la Tv o internet, o tutte le mattine in edicola, e non ha fatto nulla, è rimasta totalmente indifferente. A questo punto ci sono due modi di reagire: auto assolversi dicendo che è responsabilità della gente non voler vedere, oppure interrogarci sull’efficacia della nostra narrazione per determinare quello che considero l’elemento fondamentale di ogni rapporto giornalistico fra me che racconto, la persona che viene raccontata e colui che legge, ossia la commozione.
Dunque è l’eccesso di informazione e di connessione che non determina più commozione o al massimo un’indignazione “da social”?
La commozione si esaurisce in un rapporto unidimensionale con lo schermo che abbiamo davanti e con le connessioni che ognuno ha all’interno di questo mondo virtuale. Prima l’incrocio della commozione avveniva fisicamente in alcuni spazi sociali, come il partito, la scuola, la parrocchia, il consiglio di fabbrica, dove quello che si era visto al telegiornale o letto sul giornale diventava connessione e risposta collettiva che portava a delle conseguenze. Perché se si era in tanti, anche i governi dovevano riflettere. Oggi quegli spazi sono spariti, sostituiti dagli schermi che determinano solo afasia.
Nel libro dedica un capitolo a Ebola e alla Sierra Leone, e le analogie con la pandemia che stiamo vivendo oggi sono evidenti. Il fatto che il Covid ci riguardi da vicino può cambiare la narrazione e fermare la “rarefazione della pietà”?
La narrazione di Ebola era collegata a un unico problema: che non arrivasse qui. Per il resto era il “solito” affare dell’Africa. Oggi la pandemia di Covid suscita emozioni perché è qui tra noi. Se si fosse limitato alla Cina, l’unica cosa di rilievo che avremmo letto sarebbe stata la preoccupazione per l’economia, e al massimo la curiosità rispetto al carattere repressivo delle misure che il governo riusciva a imporre ai cittadini. Sull’aver ritrovato uno spazio per la pietà nel nostro racconto sarei molto cauto, non dimentichiamo tutte le orrende constatazioni “consolatorie” sulla mortalità degli anziani, oltre alla retorica dell’“andrà tutto bene” quando c’erano già 35mila vittime.
È ancora un dovere raccontare il dolore?
È l’unico che abbiamo. Compito del giornalismo è dare suono alle tragedie del mondo perché le vittime spesso tacciono, o il silenzio gli viene imposto. Bisogna andare nei luoghi dove gli avvenimenti accadono, il giornalismo non si fa al computer ma guardando e ascoltando, al fianco di chi trasformiamo in narrazione. Altrimenti non avremo l’autorizzazione morale per raccontarlo.
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