Cambiamenti climatici e possibili azioni di prevenzione. A parlarne è Mauro Grassi, direttore della Fondazione Ewa.
Ancora prima della fine dell’anno, il 2023 ha già segnato un primato negativo per numero di frane e alluvioni. Secondo i dati elaborati dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (Irpi) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, gli eventi climatici estremi fra inondazioni, allagamenti e frane sono stati 25, con un totale di 20 vittime. L’emergenza più drammatica ha riguardato l’Emilia Romagna con i 16 episodi alluvionali del maggio scorso, ma anche la Lombardia e la Sardegna.
Una situazione grave, considerati anche i numeri degli anni scorsi (21 eventi nel 2022 con 23 vittime e 26 eventi con 6 vittime nel 2021) che impone di intervenire in modo più significativo sulla prevenzione, per scongiurare nuove emergenze.
D’altronde, che l’Italia abbia un territorio in gran parte a rischio di dissesto idrogeologico non è una novità, ma i cambiamenti climatici stanno ulteriormente peggiorando il quadro.
Secondo i dati dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), infatti, il 94% dei Comuni del nostro Paese è potenzialmente soggetto a uno di questi eventi.
«I dati Ispra ci forniscono degli indici di pericolosità per le diverse zone d’Italia – spiega a 50&Più Mauro Grassi, direttore della Fondazione Ewa, Earth and Water Agenda, e direttore della Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dal 2014 al 2018 – calcolati su indicatori storici. In pratica si guarda alla storia dei disastri climatici, e viene calcolata l’ipotesi di un ritorno storico di queste evenienze. Le valutazioni di rischio che noi abbiamo sono basate sugli andamenti di cento anni di storia italiana, ma il punto è che il mondo oggi è completamente diverso».
Quanti sono gli abitanti esposti a rischio nei diversi territori italiani?
Per quanto riguarda le frane, gli abitanti che si trovano in aree relativamente ad alto pericolo sono circa 1,2 milioni, quelli a rischio alluvione sono 6,8 milioni. Ad esempio, tutta l’area alluvionata dell’Emilia è storicamente soggetta a questi fenomeni, e infatti è segnalata nella mappa del rischio. Non dobbiamo poi dimenticare che insieme agli abitanti ci sono gli edifici, le aziende, i beni culturali interessati dalla spada di Damocle delle frane o delle alluvioni. Nel campo dei beni culturali sono stati fatti una serie di interventi per la messa in sicurezza: il più famoso è quello dell’Ultima cena del Vasari, conservata a Santa Croce a Firenze, dove un meccanismo di carrucole consente di portare l’opera ad una quota di sicurezza in caso di allagamenti, il tutto in pochi secondi.
Quanto i cambiamenti climatici influenzano l’esposizione al rischio di frane e alluvioni?
Col cambiamento climatico le piogge tenderanno a diminuire di circa il 10% in Italia, quindi in maniera moderata. Il problema però non è la diminuzione in sé, quanto la forte variabilità degli eventi meteorologici, che si traducono in siccità e alluvioni. A parità di piogge per quasi 300 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, questi cadranno in modo diversificato e variabile, con fenomeni che si estremizzano in un senso e nell’altro. Nel corso della storia ci sono sempre stati periodi in cui è piovuto meno e periodi in cui è piovuto di più, ma questi picchi stanno diventando sempre più frequenti.
Spesso si sente parlare di “flash flood” o alluvioni lampo: qual è la differenza con un’inondazione?
Si tratta di alluvioni che si indirizzano in un solo luogo per poco tempo, all’improvviso, e che possono durare minuti o qualche ora. È ciò che è accaduto in Emilia-Romagna, nelle Marche, a Catania, e che sta succedendo in diverse parti d’Italia. È evidente che in questi casi anche le difese che mettiamo in campo risultano insufficienti, perché è come se la pioggia di sette mesi cadesse in due giorni, ma è chiaro che le opere contro il dissesto possono comunque mitigare gli effetti di questi eventi, anche se non possono impedirli. Ma un conto è avere tre metri d’acqua davanti alle case e un altro è averne trenta centimetri.
Cosa si è fatto in Italia in questi anni per la prevenzione?
Purtroppo in Italia il dissesto idrogeologico rischia di diventare drammatico, perché non avendo fatto molto sta anche peggiorando. Facendo i conti sugli ultimi vent’anni, abbiamo circa tre miliardi e mezzo di danni all’anno causati da eventi come frane e alluvioni. Non sono tutti soldi pubblici, perché ci sono anche i danni a case e imprese che lo Stato non risarcisce, ma si tratta di una stima complessiva di quanto si spenda nel Paese dopo le emergenze. La cifra che lo Stato investe in opere di prevenzione è di 350 milioni, quasi un decimo del danno annuale. È il dilemma del Paese.
Fra il 2014 e il 2018 lei è stato direttore di Italiasicura, la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: quali sono stati gli obiettivi raggiunti?
I nostri fiori all’occhiello sono stati Firenze, Milano e Genova, dove è stato realizzato un piano importante per la difesa del suolo, e adesso sono in campo delle misure che fra qualche anno metteranno queste città ad un livello di rischio accettabile. Per fare l’esempio di Genova, strutturalmente difficile, siamo riusciti a portare il finanziamento per la messa in sicurezza da 36 a 200 milioni. E abbiamo lavorato con giunte di tutti i colori politici, perché di fronte a questi interventi le strutture devono essere trasversali e dimostrare competenze tecniche.
Quali sono i cardini di un intervento di prevenzione che funzioni?
Serve un piano, un centro di governo a livello nazionale, dei centri regionali e dei fondi da gestire che devono aumentare, perché oggi sono insufficienti. Servirebbe uno stanziamento di tre miliardi, se si considerano frane, alluvioni e problemi legati alla siccità. Le emergenze continueranno e si intensificheranno, perché il cambiamento climatico porta a queste caratteristiche estreme, che diventeranno parte integrante del Paese. Se non facciamo infrastrutture adeguate, lasceremo a figli e nipoti un Paese arido e a rischio.
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