Stando ai dati di una recente ricerca, il 2030 vedrà la presenza di circa cinque milioni di anziani disabili. Questo ci pone di fronte alla necessità di investire per tempo in reti assistenziali, competenze e tecnologie, intervenendo anche sulle politiche di welfare e potenziando i servizi già attivi. A sostegno della disabilità è già stato fatto molto. Ma non tutto…
L’Italia è un Paese la cui popolazione invecchia sempre di più, diminuendo invece nei numeri. Secondo le proiezioni elaborate dall’Istat per Italia Longeva (Rete Nazionale sull’Invecchiamento e la Longevità Attiva), nel 2050 saremo due milioni e mezzo in meno, mentre si assisterà a un exploit degli “over 65”. Nei prossimi cinquant’anni le generazioni più a rischio di non autosufficienza passeranno da un quinto a un terzo della popolazione e, già nel 2030, gli anziani disabili da assistere toccheranno la vetta dei cinque milioni. «Questo quadro solleva una questione di sostenibilità strutturale per l’intero Paese. Per far fronte alla crescente perdita di autonomia bisognerebbe investire in reti assistenziali, competenze e tecnologie – afferma lo psicoterapeuta Teo Calzaretta -. Servono interventi sul fronte delle politiche di welfare che regolino gli aiuti in base allo stato di bisogno, potenziando, ad esempio, i servizi socio-sanitari finora in gran parte integrati abbondantemente dalle famiglie. Un’importante realtà assistenziale, qui in Italia, è rappresentata dalle case famiglia pensate per l’accoglienza di disabili adulti dai 18 ai 65 anni che non possono più vivere nel contesto d’origine. Qui si svolgono attività legate alla cura di sé e dell’ambiente in cui gli utenti vivono e individualizzate in base al bisogno e alle competenze. Parliamo quindi di igiene, di riordino ma anche di vita di tutti i giorni che comprende il fare una lavatrice, lo stendere i panni, l’apparecchiare una tavola».
Quali sono, invece, le attività per la socializzazione e l’inclusione pensate in queste istituzioni?
La stessa frequentazione di centri anziani o la partecipazione a soggiorni estivi, il fare la spesa o attendere in fila dal medico, ma anche fare la merenda al bar sono tutte attività che implicano un contatto con il mondo esterno. C’è poi anche l’arte terapia che permette, attraverso elementi materici, la costruzione di piccoli oggetti, e che può essere finalizzata alla comunicazione. Questo tipo di attività serve infatti a implementare la comunicazione laddove ci siano persone che non parlano e si esprimono attraverso quello che fanno. Anche lo sport è fondamentale. Oltre al potenziamento della propria struttura organica, muscolare e scheletrica, c’è l’apprendimento delle regole perché le attività vengono svolte in gruppo. C’è la gratificazione data dai riconoscimenti sociali come le medaglie e le premiazioni, la condivisione delle regole e tutta quella serie di giovamenti che ci sono in tutte le attività strutturate.
Cosa accade, invece, quando una persona disabile compie 65 anni?
Con l’avanzare dell’età c’è tutta una valutazione che porta il disabile dalla casa famiglia alle Rsa (Residenze Sanitarie Assistenziali). È un vero e proprio cambiamento di status, da disabile ad anziano, che si concretizza in un passaggio di servizi e competenze e che, per l’anziano, diventa spesso destabilizzante, traumatico. Al compimento dei 65 anni, infatti, la persona con disabilità passa da un piccolo modello abitativo formato famiglia a un luogo più complesso e strutturato come una casa di riposo. Le esigenze di una persona disabile fin dalla nascita sono poi molto diverse da quelle di chi ha una disabilità legata all’età.
Possiamo dire che, in questo senso, un passo importante è stato compiuto con la Legge 112/2016 sul “Dopo di noi”?
Alle persone con disabilità grave inserite nei progetti della Legge 112 la continuità di vita verrebbe assicurata da un progetto non più scandito da una sorta di orologio anagrafico, ma definito per loro in modo appropriato. Sinceramente penso che, in generale, noi abbiamo delle leggi che possono anche essere definite buone, ma c’è ancora una mancata conoscenza di queste condizioni che sono tanto diversificate.
Quindi c’è ancora molto da fare, secondo lei?
Sì, direi proprio di sì. Se penso, ad esempio, alla disabilità intellettiva, nonostante siano stati fatti tanti studi, mi rendo conto che sia ancora un ambito per molti versi sconosciuto. Gli aspetti diagnostici sono molto complessi e difficili, non è facile fare una diagnosi e quindi anche una prognosi. Diventa complicato anche per un professionista mettere in atto un piano di intervento riabilitativo, psicomotorio o di terapia cognitiva che permetta un reale intervento, soprattutto quando vengono da noi persone adulte con una diagnosi in età infantile che non sia stata integrata e aggiornata nel tempo. Da un punto di vista sociale, poi, ci sono ancora molte paure rispetto ai disabili, soprattutto non si capiscono appieno le potenzialità che una persona con disabilità può avere.
E una delle prime istituzioni sociali in cui l’individuo si trova a confrontarsi sin dai primissimi anni di vita è la scuola, a cui oggi viene richiesto di riconoscere i bisogni diversificati dei propri alunni e di attivare strumenti e risorse concreti da utilizzare nella progettazione e nella formazione.
«La scuola è stata depauperata nel tempo, ma ce la mette tutta per adattare i suoi sistemi didattici e formativi alle specificità delle persone con disabilità, grazie anche all’introduzione di figure nuove come l’Operatore Educativo per l’Autonomia e la Comunicazione o attraverso il Piano Educativo Individualizzato – spiega Elisabetta Belisario, coordinatrice del servizio Aec per le scuole, Assistenza Educativa Culturale, del Municipio I di Roma -. Proprio in questo documento vengono descritti annualmente gli interventi educativi e didattici destinati all’alunno con disabilità, gli obiettivi di socializzazione e di apprendimento con uno sguardo al dopo. Questi bambini e ragazzi non si devono sentire come un oggetto estraneo da infilare in un buco dove non entrano. Devono sentire che sono parte di un tutto e che in questo tutto ci sia spazio per loro».
Fuori dalla scuola cosa c’è a sostegno delle persone con disabilità?
Ci sono tante esperienze, progettualità, sperimentazioni inclusive importantissime. Mi viene in mente il progetto “Filippide”, nato dalla volontà di Nicola Pintus, un insegnante di educazione fisica che ha capito che la corsa, essendo uno sport ripetitivo, con un’azione fisica sempre uguale, è uno spazio corporeo nel quale il soggetto affetto da autismo rientra benissimo. L’atletica, oltre a dare un beneficio fisico, affina l’autonomia, l’autosufficienza, la capacità relazionale e stimola la continuità dell’impegno. Questa e altre esperienze restituiscono competenze, abilità e dignità a coloro i quali, una volta diventati adulti, non hanno molto.
Quali sono altre realtà in cui gli adulti con disabilità possono trovare una loro dimensione attiva?
Penso a “La Locanda dei Girasoli” a Roma che, come altri centri di ristorazione in Italia, promuove l’inserimento lavorativo di persone affette da Sindrome di Down, nobilitando e dando dignità alla persona attraverso un percorso di formazione e di inserimento lavorativo. Ci sono anche gli impieghi negli orti sociali o i lavori di falegnameria che agiscono sui processi motori, sensoriali e cognitivi dell’utente, attivando percorsi di socializzazione, formazione e autonomia. Se per le persone disabili in età evolutiva si riscontra l’esistenza di una sufficiente strutturazione di servizi sanitari, sociali ed educativi, nell’età adulta tuttavia si registra una minore offerta di progetti di integrazione tra interventi sociali e sanitari. Eppure non bisogna dimenticare che ogni persona disabile, di qualsiasi età sia, ha diritto ad un sistema di aiuto che garantisca lo sviluppo massimo della sua personalità e ad un inserimento sociale il più attivo e partecipato possibile. L’esercizio del diritto a conseguire una personale qualità della vita ragionevole e possibile dovrebbe essere una certezza e non una possibilità. E su questo fronte di strada da fare ce ne è ancora tanta.
Disabilità e ambiente. La rivoluzione dell’Icf
Il 22 maggio 2001 L’Organizzazione Mondiale della Sanità perviene alla stesura dell’Icf, “Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute”. L’Icf fornisce un’analisi dello stato di salute degli individui ponendo una correlazione fra salute e ambiente. La disabilità viene definita come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. Ogni persona, in qualunque momento della vita, può avere una condizione di salute che in un contesto sfavorevole diventa disabilità. L’analisi delle varie dimensioni esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) dell’individuo porta a evidenziare non solo come le persone convivono con la loro patologia, ma anche quali siano le loro risorse e potenzialità, e cosa sia possibile fare per sostenerle e migliorare la qualità della loro vita. Questa innovativa lettura della disabilità pone le basi per un approccio innovativo alla progettazione di ambienti adeguati e vivibili in un’ottica inclusiva e universale.
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