Ha appena pubblicato Let Us Recount Our Dreams, il suo 16° lavoro con una grande orchestra jazz. Sicuramente un primato assoluto per l’Italia e forse tra i musicisti viventi del mondo intero. Lui è Dino Betti van der Noot, ha compiuto 87 anni, lucidissimo, creativo, profondo.
Dicono che siano “tempi magri” quando sono i musicisti più attempati quelli capaci di mettersi in gioco, di tentare inattese prove di coraggio e improvvisi colpi di reni originali, mentre i giovani si accontentano di seguire le vie conosciute, di non trasgredire mai, al massimo di spezzare il capello in quattro grazie a una tecnica sopraffina. Non ci serviva Dino Betti van der Noot per sapere che non è così, ma certo la testimonianza artistica di questo 87enne direttore d’orchestra jazz non è che una conferma a quello che pensiamo e scriviamo da sempre: la creatività e il coraggio rimangono per sempre e spesso si affinano con il tempo e l’esperienza, continuiamo a coltivarle.
Let Us Recount Our Dreams, il sedicesimo album orchestrale di DBvdN – come ama farsi chiamare -, nasce dal suo amore per William Shakespeare e offre una musica di gran pregio, un jazz che non ha paura di rischiare, un fluire costruito di idee e sguardi, di temi e stili, un linguaggio che è sintesi di una molteplicità di linguaggi e di esperienze. Le cinque lunghe composizioni suonano liriche e insieme sghembe, distese e insieme frastagliate, intense e insieme spigolose, consolatorie e insieme velenose. Ci ricordano, come un po’ tutto il lavoro dell’italo-olandese, le costruzioni architettoniche di Antoni Gaudí, sempre inattese e sorprendenti e nello stesso tempo sempre perfettamente funzionali e incomparabilmente decorative.
Ci parli di Let Us Recount Our Dreams e del suo amore per Shakespeare, che ispira questo lavoro fin dal titolo…
Shakespeare prima di tutto. È, a mio avviso, un punto altissimo e fondamentale del pensiero occidentale. Basti pensare al concetto che esplode nei sonetti, quando cerca e trova l’immortalità attraverso la poesia, in un certo senso sentendosi un demiurgo, con un’assoluta coscienza del proprio valore. E noi occidentali cerchiamo disperatamente un’immortalità: consci del fatto che è impossibile dal punto di vista fisico, non ci fa differenza che sia quella dell’anima piuttosto che quella delle nostre opere.
Shakespeare poi, data la sua capacità di analisi di ogni aspetto dell’umanità, è una fonte inesauribile di citazioni. Così, anche in questo album il titolo l’ho preso in prestito da una sua commedia, Sogno di una notte di mezza estate. Sono versi che, arrivato alla mia età, sento profondamente veri. Quello che ricordiamo di aver vissuto è davvero reale oppure si stempera nel pensiero fino a diventare un sogno? Nel CD racconto le sensazioni che provo guardando indietro negli anni, rivivendo momenti importanti e tentando di trasmettere queste emozioni a chi ascolterà.
Dal punto di vista compositivo, ho cercato una semplicità e un’immediatezza che potessero portare al massimo l’efficacia dell’interazione fra parti scritte e parti improvvisate, e in questo modo coinvolgere emotivamente anche l’ascoltatore. Non è una musica destinata a far battere il piede per terra – gli schemi ritmici sono quasi sempre piuttosto intricati – ma che vorrebbe portare chi l’ascolta a vivere un racconto, una storia. Una storia che, come tutti i cinque brani, termina quasi con un sussurro, quasi con puntini di sospensione che lasciano aperta la possibilità di andare oltre.
Qual è la differenza di ruolo e di prassi tra un direttore d’orchestra jazz, che quasi sempre è anche compositore dei brani proposti, e uno classico?
L’orchestra jazz non si può dirigere come fosse una filarmonica classica. Il lavoro deve essere fatto prima dell’esecuzione vera e propria: indicare cosa si vuole raggiungere e come. Poi, durante l’esecuzione, entrano in gioco tante variabili e bisogna non solo accettarle, ma favorirle. Se ti metti a battere il tempo davanti all’orchestra, con o senza una bacchetta, il risultato sarà una mancanza di relax, di spontaneità. Bisogna soltanto dare dei segnali in certi momenti, pronti a cavalcare l’imprevisto e a sottolineare gli apporti individuali.
Un’orchestra come quella che suona la mia musica non vive di routine: ogni volta succede qualcosa di differente, contrariamente alle grandi orchestre che abbiamo ascoltato nel passato. Sono tutti straordinari musicisti, con i quali esiste un rapporto di stima reciproca e di amicizia. È bellissimo ritrovarsi insieme, particolarmente in occasione dei (purtroppo rari) concerti. Ci capiamo al volo e la mia musica non potrebbe esistere senza il loro apporto: è pensata specificamente anche per le singole personalità. Ognuno ha caratteristiche diverse e un suo sound individuale, e la somma di tutto questo crea la specificità dell’orchestra
Lei ha 87 anni: è la musica che la mantiene giovane oppure ha qualche altro segreto?
La musica, certamente, ma anche una curiosità quasi scimmiesca. Il desiderio di imparare continuamente. Un’attività continua, in diversi campi. Non isolarsi. L’amore per il mare… Poi una vita piuttosto sana: non fumo (molti anni fa ho fatto una campagna contro il fumo) e quasi non bevo alcolici. Infine, un approccio positivo, costruttivo, a qualsiasi argomento.
Qual è la situazione del jazz oggi in Italia?
Ci sono eccellenze, forse in un numero maggiore di quello che non appaia; e poi molta routine. Ma questo è assolutamente logico e normale. Il punto, semmai, sta nel fatto che il jazz dovrebbe essere qualcosa in movimento continuo: evoluzione, cambiamento, chiamiamolo come ci sembra più consono. Dovrebbe non ripetersi, cercare continuamente nuove strade. Dovrebbe esserci un jazz differente per ogni musicista che si dedica a questo ramo della musica. È inutile rifare quello che è già stato fatto da qualcuno in passato: gli originali sono sempre meglio delle copie. E, invece, il business tende a premiare spesso le proposte più facili, perché già sperimentate da tempo.
Come suggerirebbe di porsi a fronte dell’infinità di musica che oggi ci bombarda? Basta affidarsi al gusto personale – mi piace, non mi piace – oppure sarebbe opportuno avere dei riferimenti certi, di qualità riconosciuta?
Suggerirei di non fermarsi su quello che viene più pubblicizzato: di essere curiosi, di esplorare generi diversi. È difficile accostarsi di colpo, non so, a una sinfonia di Mahler, ma ci si può arrivare man mano, attraverso ascolti più “facili” e comprensibili. Mia madre mi ha iniziato all’ascolto da bambino raccontandomi quello che descriveva la Cathédral Engloutie di Debussy. Film come Fantasia possono svolgere una funzione straordinariamente positiva. Poi, bisognerebbe che la musica, come componente fondamentale del vivere civile, trovasse il posto che le compete anche a livello scolastico, stimolando una maggiore partecipazione attiva da parte dei ragazzi. Un po’ come avviene negli Stati Uniti, che da questo punto di vista sono all’avanguardia. E portare i ragazzi, fin dai primi anni ad ascoltare dal vivo musica di qualità (che non vuol dire musica difficile). Soltanto conoscendo i meccanismi che regolano la musica è possibile arrivare a scelte di ascolto più mature.
A chi voglia ascoltare per la prima volta un’orchestra jazz per avere un’idea di come suona, non necessariamente un giovane, quali album suggerirebbe?
Ce ne sono tantissimi, difficile scegliere… ma andiamo per gradi. Inizierei con First Time! The Count Meets the Duke, con le orchestre riunite di Ellington e Basie; poi Nutcracker Suite di Ellington e Billy Strayhorn; Summer Sequence e altre composizioni di Ralph Burns con l’orchestra di Woody Herman; A Concert In Progressive Jazz di Stan Kenton; Liberation Music Orchestra di Charlie Haden con Carla Bley. È soltanto l’inizio, e aggiungerei subito la versione originale di Mood Indigo, di Ellington. Poi, magari, aggiungerei qualcosa di mio…
Ritiene che il jazz, come dice qualcuno, sia ormai una musica per vecchi?
Sicuramente oggi è una musica fatta da una minoranza per una minoranza. Ma non è detto che questa seconda minoranza sia avanti con gli anni. Secondo me, è un problema di comunicazione: negli anni 50 e 60 i media coprivano il jazz come oggi coprono il rock o il pop, e questo portava ai concerti un pubblico molto ampio. Oggi manca questo stimolo. Però, quando c’è qualche manifestazione, qualcosa che diventa un “evento”, il pubblico c’è ed è composto da persone di ogni età. Questo pone un problema diverso e dovrebbe farci meditare sul tipo di approccio che – ci piaccia o no – dovremmo avere per portare la gente a partecipare maggiormente a iniziative culturali. Non solo al jazz.
© Riproduzione riservata