Un boom: un milione e 600mila. Questo è il numero impressionante, certificato dal Ministero del Lavoro, delle dimissioni volontarie date dagli italiani lo scorso anno. Tra le cause di cessazioni dei rapporti di lavoro, le dimissioni sono la quota più alta dopo la scadenza dei contratti a termine.
Le possibili motivazioni? La difficoltà nel conciliare vita e lavoro e la ricerca di professioni che corrispondano di più alle proprie aspettative. Un fenomeno talmente diffuso da essere battezzato con l’espressione di “Great resignation”, le grandi dimissioni: una tendenza nata negli Stati Uniti a partire dalla pandemia, che ha ridefinito il nostro modo di vivere in ogni parte del globo. Ma se il 2022 è stato l’anno delle “grandi dimissioni”, il 2023 è stato definito l’anno delle “dimissioni di coscienza”, in inglese “consious quitting”. Sempre più persone desiderano lavorare in aziende che abbiano un impatto positivo sulla società e quando non è così, sono disposte a lasciare il proprio posto.
Ma non finisce qui. Nell’ultimo anno una tendenza in crescita, soprattutto tra la cosiddetta generazione Z, è quella delle dimissioni climatiche, ovvero lasciare il proprio lavoro, se l’azienda in cui si è impiegati danneggia l’ambiente.
Nel nostro Paese si parla da relativamente poco tempo del fenomeno del “climate quitting”, ma guardando ai numeri sono sempre di più le persone – soprattutto giovani – che decidono di lasciare un’occupazione per ragioni etiche. Se ritengono cioè che quell’occupazione abbia un impatto negativo sulla salute del Pianeta.
C’è chi collega il fenomeno a quello della tendenza più generale della “great resignation”, chi alla ricerca di un equilibrio più sano tra vita e lavoro.
In questo senso i “climate quitters” rappresenterebbero un’evoluzione o una derivazione del fenomeno delle grandi dimissioni: la scelta lavorativa della generazione Z va in un’unica direzione, quella delle aziende green impegnate dal punto di visto etico e ambientale.
A confermarlo è un recente sondaggio della società KPMG, condotto nel Regno Unito nel 2022 su quasi seimila adulti tra impiegati, studenti, neodiplomati. Tale sondaggio ha evidenziato che l’importanza dei fattori ambientali e sociali, data (o negata) all’interno di un’azienda, sta influenzando le decisioni lavorative di quasi la metà delle persone in età da lavoro del Regno Unito.
In un certo senso il “climate quitting” può essere definito una forma di attivismo climatico, ma oggi definirsi attivisti non sarà diventato una moda? Soprattutto sui social si parla in effetti di attivismo performativo, cioè quella forma di attivismo che rende le battaglie per i diritti umani e ambientali un prodotto commerciale. L’attivismo “puro” invece è fare delle scelte che nella vita quotidiana rispettino i diritti umani e del Pianeta, perché ogni azione che facciamo è una azione politica. E in questo senso, anche decidere quale professione si vuol fare diventa una forma importante di attivismo.
Ma non sono solo le persone a cercare posti di lavoro più verdi, anche nelle aziende aumenta la richiesta di figure professionali con competenze ambientali: secondo Confindustria, in Italia nel 2026, le offerte di lavoro green arriveranno a circa quattro milioni.
Lo stesso avviene all’estero: i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro mostrano che nel mondo 12,7 milioni di persone sono impiegate nel settore delle energie rinnovabili, ed entro il 2030 saranno creati più di 38 milioni di nuovi posti.
E già oggi, a livello mondiale, le persone impiegate nel settore delle rinnovabili, sono di più di quelle occupate nelle aziende petrolifere.
Il paradosso però è, come dimostra un’indagine di LinkedIn del 2022, che al momento gli annunci di lavori verdi sono cresciuti a un ritmo annuo dell’8% dal 2015, mentre le figure professionali verdi sono aumentate solo del 6% ogni anno nello stesso periodo.
In un’epoca complicata come la nostra, i “climate quitters” sono la prova vivente che etica e ottimismo non sono opzioni riservate ai sognatori e che un futuro diverso è alla portata delle nostre azioni.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
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