Il vezzo di pubblicare un album il giorno del proprio compleanno è abbastanza raro nel mondo del pop, come in quello letterario. Di solito succede che lo faccia chi propone delle ristampe, degli omaggi oppure delle cover negli anniversari. Avevamo accennato sulla rivista a quella sorta di record mondiale stabilito dal mito del country americano quando lo scorso aprile pubblicò il suo 72esimo album proprio nel giorno in cui iniziava a percorrere il suo 80esimo anno di vita. In realtà, alcuni giorni prima, quel record era già stato superato, da un italiano.
Detto Ferrante Anguissola aveva pubblicato E la voce va, il suo terzo album, proprio il 18 marzo, giorno in cui compiva 90 anni. Inevitabile per noi intervistarlo non appena abbiamo saputo la notizia. (E ascoltato il cd, che possiede una sua dignità cantautorale, a metà strada tra il compianto Herbert Pagani e certa densità umorale alla Paolo Conte prima maniera, con testi che parlano del mare, dell’amore, della natura e di ingiustizia.)
«Oggi i miei tre dischi sono rintracciabili sotto il mio nome, anche le canzoni di Poligrafici, Pensionati, Trombai e Santi, il primo LP, pubblicato nel 1978 con lo pseudonimo Asterix.»
Tre lavori molto diversi…
«Del tutto. Quel primo era una protesta che veniva dal cuore contro cose che dovevano cambiare, che non mi piacevano. E purtroppo per certi versi è ancora attuale. Il secondo A occhi aperti era un messaggio. Voleva dire “stiamo attenti perché molte cose stanno cambiando”. Ad esempio il passaggio dal mondo analogico a quello digitale, di cui non abbiamo ancora capito tutto il peso. E la voce va è più intimo e vuole esporre le cose che mi piacciono, a cominciare dall’andare per mare con attenzione (Ferro, come ama farsi chiamare, è stato istruttore di vela a Caprera, ndr).»
Ci racconti com’è nato il suo amore per la musica…
«Oggi vorrei cambiare la mia narrazione, perché sono appena tornato da Spalato in Croazia, di dove è mia moglie. Da quando è uscito il disco ho lavorato a fare un sacco di interviste, ne ho fatte 50/60, un po’ tutte uguali. Da ora vorrei cambiare un po’ la storia. Ho sempre raccontato la mia vita con tutte le avventure che ho fatto e che sono uscite dappertutto. Vorrei parlare più di altre cose. Come questa che lei mi ha chiesto.
Io sono un musicista, con tutta l’educazione corretta in ambito musicale. Sono nato in una famiglia dove si suonava, ci piaceva la musica anche se eravamo in una cascina di campagna. Però non ho potuto seguire la carriera musicale, anche se allora il terreno era più favorevole di oggi. Ho preferito fare una società, la Exhibo S.p.A., che c’è ancora, e di cui mi sono occupato al 100%, mentre i miei soci erano a Firenze.
Però nel ’78 pensavo di lasciare quella mia vita e di fare come Paolo Conte, che ha lasciato la carriera da avvocato. Ho provato, ma nonostante alcune soddisfazioni – una mia canzone L’arca, le cui parole sono ancora attuali, girò abbastanza – sono caduto nella trappola di un difficile divorzio e della depressione. Così ho dovuto combattere e ritirarmi. E ho continuato a sentirmi e mi sento sempre un musicista, ma non ho avuto il coraggio di lasciare tutto. Del resto mi sono accorto di conoscere e intuire molto bene i clienti della musica e della comunicazione, di capire quello di cui c’era bisogno sul mercato.
Sono diventato un po’ protagonista come solutore di problemi audio e individuatore di nuovi prodotti. In particolare di microfoni da importare, grazie alla mia sensibilità artistica e intuizione. Andavo in giro per il mondo nelle grandi fiere, a Las Vegas, a Seul, ad Hannover e tornavo con nuove idee. Non c’era internet, non c’erano e-mail a quei tempi. Poi andavo a Torino ogni mese a confrontarmi con le innovazioni del laboratorio Rai, tanto che con i tecnici Rai nel ’59, e per gli otto anni seguenti, mi sono occupato di tutta l’impiantistica sonora del Salone delle Feste del Casinò.»
Con quali musicisti ha avuto più feeling?
«Conoscevo meglio di tutti Lucio Dalla, che mi chiamava “il signor Sennheiser” (dal nome delle più prestigiosa marca di microfoni e cuffie, per anni importata da Exhibo, ndr), e Giorgio Gaber. Giorgio si fece mandare anche una cassetta con i miei brani. Poi mi chiamò e mi disse “le canzoni sono belle sì, ma mi raccomando non fare il predicatore”, cosa che poi lui ha fatto in seguito per anni.
Però negli studi di registrazione spesso litigavo, soprattutto quando si trattava di registrazioni dal vivo, perché tutti le volevano pulite, senza capire che l’importante è il pubblico, la verve, l’emozione. Non mi interessava più di tanto vendere, mi interessava istruirli. Ho anche tenuto dei corsi a Venezia nel ’79 e nell’80, con 300 allievi il primo anno e 600 il successivo. Era un mondo intenso, ingenuo, fatto di passione, con le suore di Radio Maria con il registratore al collo in giro per Venezia.»
In che modo ha vissuto il rapporto tra tecnologia e musica?
«Le dirò. Allora la tecnologia era minimale, non si sapeva ancora cosa fosse veramente. Ci si imbatteva con lei pian piano, soprattutto all’estero. Ad esempio in California, terra magnifica, in qualsiasi buco di bar c’era qualcuno che cantava e due o tre che registravano. Chiacchierando chiedevo se lo facevano per un disco, e rispondevano maybe, “forse”. Ho capito dopo quel forse: aspettavano che ci fosse il piglio giusto e la passione che prende il pubblico e lo stage che risuona giusto. È allora che viene fuori dal vivo la registrazione perfetta, l’eufonia.»
Però poi alla fine con questo disco è ritornato, quasi in maniera totalizzante, alla natura…
«Un vero ritorno alle origini. Noi vivevamo tutti insieme in una cascina del cremonese. Eravamo una grande famiglia di un centinaio di persone, dove c’erano i riti contadini della trebbiatrice a vapore che arrivava, dei canti con la fisarmonica sotto le barchesse, dello scartocciare il granoturco. Io suonavo e cantavo già nel ‘43 con le luci fioche, perché i Pippo, gli aerei in guerra, ci facevano spaventare. Poi più tardi andavo a cantare in campagna a fare la serenata per conto dei ragazzi più grandi.
In campagna ho vissuto periodi indimenticabili nella loro semplicità. Vedevo dal lombrico e le farfalle alle bestie più grandi, come si comportano, come si muovono. Stavo a guardare l’acqua dei navigli che sfiorava la strada oppure andavo al ponte sul Po. Ascoltavo i temporali portare in cascina l’aria ferma e far agitare i pioppi. Se cambiava il rumore delle foglie cambiava il clima e bisognava stare attenti. La natura è tutto, è un miracolo, è quello che nasce e come si conforma. Per lei bisogna avere occhi innocenti e imparare.»
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