Assistere costantemente un familiare significa iniziare a vivere un’altra realtà. Una condizione che porta ad un lento annullamento della propria esistenza, del proprio io, a favore del malato
«Le prime avvisaglie della demenza di mia madre sono comparse a dicembre del 2012. Io vivevo in Sicilia, mi sono accorto che aveva delle piccole dimenticanze: confondeva i nomi o alcune parole od oggetti. Siccome il padre del mio migliore amico aveva sofferto di questa patologia, avevo idea di quelli che fossero i sintomi».
Si somigliano spesso le storie dei familiari che hanno a che fare col declino cognitivo di un parente, di una persona cara. Esattamente com’è capitato a Marco Annicchiarico, neppure cinquantenne, oggi alle prese con la malattia della madre. «Alle prime avvisaglie – racconta – ne parlai in casa, ma non fu dato peso a ciò che dicevo: neppure il medico di base mi diede credito. Solo dopo due anni mio padre si convinse a sottoporre mia madre a una visita neurologica: da essa emerse la diagnosi di Alzheimer».
Una notizia che sconvolge ogni equilibrio familiare, la stessa che può mandare in pezzi ogni genere di organizzazione precedente. Nel caso di Marco, è lui a farsi carico della patologia della madre, tanto più che il padre si ammala e muore nell’arco di poco tempo. Per assistere i genitori – poi solo la madre, la cui salute mentale è definitivamente compromessa – Marco lascia la Sicilia, il lavoro di ufficio stampa e fa ritorno nella sua città natale, Milano, dove vive la famiglia. «Diventare un caregiver significa che si sommano un insieme di fattori che ti portano a vivere in un’altra realtà. Una realtà che cambia per chiunque stia vicino a un malato di demenza».
La madre, continua a dirci Marco, dapprima ha iniziato a non riconoscere più il padre; poi, sono cominciati i disturbi comportamentali e, quindi, ecco sopraggiunti autentici deliri. «Un malato di demenza non dimentica soltanto; non riconosce più le persone e, se al mattino si sveglia trovando nella stanza accanto qualcuno che non riconosce, comincia ad agitarsi. Sarebbe così per chiunque di noi».
Marco racconta, perciò, di una situazione in progressivo peggioramento, che non gli lascia alternativa se non mollare tutto e iniziare una nuova vita. «Una volta a Milano, ho provato a lavorare online, in home working; ma occuparsi di una persona con demenza richiede tante energie: o lavori o assisti». Non a caso, le statistiche dicono che oltre il 66% dei familiari che devono prendersi cura stabilmente di un caro ammalato è costretto a lasciare il lavoro. «Statistiche che, però – sottolinea Marco – non sono tenute in considerazione da chi potrebbe prendere delle decisioni e migliorarci la vita».
La vede alla stessa maniera Laura Maisnati, cinquantacinque anni, un lavoro e tre figli ormai grandi. Anche lei ha una mamma malata di demenza che assiste col padre, piuttosto anziano. «La mia mamma, nel 2010, ha avuto un tumore al colon. Dopo l’intervento d’urgenza non è più stata la donna che faceva un po’ tutto in casa. Da allora, sono diventata la sua caregiver. Oggi ancora di più, da quando alle problematiche pregresse si è unito l’Alzheimer. È come se avesse otto mesi: ha il pannolone, la spostiamo con il sollevatore».
Laura, come Marco, nel diventare caregiver ha dovuto archiviare un pezzo della propria vita. «Da un giorno all’altro – spiega Marco – è cambiato tutto. A un certo punto non sapevo più chi fossi realmente. Prima ero la persona che scriveva recensioni musicali, libri, canzoni: in un attimo sono diventato per tutti il caregiver di mia madre. Quando mi chiedevano come stessi, io spiegavo le condizioni di mia madre perché la vita di un caregiver viene, senza volerlo, inglobata nella malattia del familiare. La demenza – si dice – non colpisce solo la persona che ne è affetta; è una malattia familiare che coinvolge l’intero nucleo».
Tutto ciò è chiaro anche a Laura. Infatti, affianca anche il padre rimasto accanto alla moglie che, però, non ha più alcun modo di comunicare. «Quando vado a casa dei miei, parlo con papà di attualità, di politica; cerco di tenere vivo il suo interesse. Tutto, però, sarebbe vano se non potessi contare anche sull’aiuto di una badante che, durante tutto il giorno, si prende cura dei miei». Una risorsa, certo, ma anche un costo che non tutti sono in grado di sostenere. Entrambi – sia Laura sia Marco – ci dicono quanto sia esigua la somma corrisposta alle famiglie con un malato a carico, supera appena i cinquecento euro: una cifra con cui non si riesce ad onorare nemmeno il minimo delle spese. «Nel 2016 – dice Marco – a mia madre fu prescritto di frequentare un centro diurno: cinquanta euro al giorno per cinque giorni a settimana, con una pensione di reversibilità e l’accompagno di appena 500 euro al mese. Poi ci sono i pannoloni: quelli che passa la Asl sono a bassa assorbenza e perciò vanno integrati».
«Non avendo intenzione di portarla in un centro – confessa Laura -, ci siamo per forza organizzati. Quello che viene a mancare è il tempo per poter continuare a essere se stessi. Avevo un lavoro per cui partivo, tornavo… Oggi non è più possibile, so che devo staccare dall’ufficio e correre da mamma e papà. Il venerdì, faccio spesa per tutta la settimana, cambio la biancheria e preparo i pacchetti con le medicine, in modo che la badante sappia quali somministrare a mamma in mia assenza».
«Non abbiamo assistenza – conclude Marco -, e ci troviamo a chiederci: “ma perché tutto questo è capitato a me?”. Ma questo, forse, è anche l’unico momento in cui riusciamo a pensare a noi stessi e non al paziente. Dopo di che si torna ad assistere il malato e ci si dimentica nuovamente di noi».
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