Marinora Del Signore.
E’ nata a Pisa dove ha conseguito il Diploma Universitario presso la facoltà di Farmacia. Appassionata da sempre di lettura e scrittura, fin da bambina scrive poesie e racconti e nel tempo libero frequenta circoli culturali. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta. Vive a Lucca.
“Si Luigi, ci vado oggi. Ho appuntamento alle quindici con la titolare dell’Agenzia immobiliare “Torus”.
“Ma è in vendita?”.
“Credo di sì, anzi ne sono certo”.
Mio fratello mi guarda quasi fossi un reperto fossile, di quelli da custodire in teche di cristallo. Non può comprendere il mio desiderio di acquistare la “squallida casa” della nostra infanzia, dove il freddo ci perseguitava e qualche animaletto poco gradito si insinuava furtivamente. Senza considerare la mancanza di acqua corrente, il bagno per niente accessoriato e via dicendo. Da sempre lui cura solo il lato pratico del vivere, cancellando con un colpo di machete tutto ciò che può disturbare la sua tranquillità. Figuriamoci se può desiderare di riappropriarsi di ricordi per lui fastidiosi! Mai un cedimento né una pausa di riflessione. Lui sa sempre, con la massima certezza, cosa è meglio per sé e la propria famiglia. Spesso ho invidiato la sua granitica stabilità e mi sono chiesto come facciamo ad essere fratelli; io sempre così incerto, permeabile ad ogni ansietà, con problemi che hanno la stupefacente qualità di suddividersi e moltiplicarsi all’infinito.
“Carlo che fai, non ti prepari? Manca appena mezz’ora all’appuntamento. E sbrigati, ritardatario ad oltranza!”.
Sorrido dentro di me, pensando che in fondo dice il giusto. Il mio modo di approcciarmi alla realtà è sempre molto vacillante e ciò mi procura sfasamenti temporali. Mi chiudo spesso nel mio microcosmo interiore e lì amalgamo, impasto, faccio lievitare pensieri, ricordi, idee che mi trattengono nelle loro morbide anse. Certamente ne risente la mia puntualità e non solo quella. Ma per quanto tenti di migliorare, non ci riesco. Comunque devo proprio darmi un sollecito. Non vorrei arrivare in ritardo, almeno questa volta.
Sono anni che passo di soppiatto davanti alla mia vecchia casa e la scruto con attenzione, quasi i muri scrostati, le macchie di umidità che si allargano in disarmoniche simmetrie, mi potessero parlare. So che dopo di noi ha avuto altre storie, vite disciolte e imprigionate per sempre nella sua memoria, riunite alle nostre antiche risonanze.
Mi sono sempre chiesto da quale profonda emozione sarei stato colto nel varcare nuovamente quella soglia. E me lo sto chiedendo adesso, mentre guido a velocità sostenuta fra viottoli di campagna fumanti di polvere. La “civiltà” qui non ha compiuto del tutto la sua devastazione. Qualche raro pastore conduce ancora le pecore al pascolo, la sera profuma di erba appena tagliata e le lucciole continuano ad incantare i bambini con la favola del soldino sotto al bicchiere. Apriranno gli occhi anche loro, un giorno, sullo squallore che ci circonda, ma potranno sempre trovare, fra la sabbia ammonticchiata dei ricordi, qualche preziosa conchiglia.
E’ qui che ho sempre desiderato vivere il tempo che mi resta. Ecco, ecco la siepe di alloro, i fiori rossi e carnosi del melograno, il vecchio cancello arrugginito, il viale invaso dalle erbacce e sullo sfondo lei, che si staglia alta e larga, imponente e bella anche con la facciata da tinteggiare.
Stranamente sono giunto prima della signora dell’Agenzia. Dovrò considerare il fatto sinonimo di giornata eccezionale! E’ insolito ritrovarsi qui. Mi sento disarmato di fronte ai ricordi che si accavallano per potersi evidenziare. Forse non sono preparato come supponevo. Un turbamento forte mi invade, quando mi avvicino alla siepe di alloro che denota il confine con la villa vicina. Dopo quasi vent’anni è ancora rigogliosa. Ricordo quel magico giorno d’estate quando un moto di curiosità mi spinse ad allargare le fronde. E la vidi: minuta, leggera, un sorriso radioso, il visetto arguto. Stava danzando da sola. Un abito soffice muoveva ali di farfalla e una voce intonata, ancora acerba, dava il ritmo. Alla quinta giravolta mi scorse e si bloccò all’istante. Le sue guance presero fuoco e dopo un attimo era scomparsa. Letteralmente fuggita. Io rimasi lì incantato, con la speranza mal riposta di vederla tornare. Avevo diciotto anni allora e Roberta quindici. Mi innamorai perdutamente. Ma fu un amore senza parole. La mia timidezza, timorosa di un rifiuto, osava solo caricare i miei silenzi di vibrazioni d’amore, d’occhiate di passione che rimanevano senza storia. Talvolta credevo di percepire in qualche suo gesto una conferma, un tacito assenso. E continuavo a sperare in chissà quale miracolo. Ma il servizio militare prima, il trasferimento della mia famiglia in città poi, fecero sì che le necessità della vita non combaciassero più.
La vidi sempre meno e malgrado l’amore non fosse mai affievolito, non trovavo niente in me stesso su cui far leva per avere il coraggio di dichiararmi. Mi lasciavo vivere in un’apatia colpevole e disastrosa, con l’illusione di una risoluzione felice. Finchè non mi giunse la notizia del suo fidanzamento. Per giorni chiuso nella mia camera, ignorai le premure dei miei genitori e le battute feroci di mio fratello, che mi riteneva responsabile della mia infelicità. Aveva ragione. Braccato dal timore del rifiuto come una volpe dai cani durante una battuta di caccia, mi ero rintanato in un cunicolo senza via d’uscita. Solo la lacerazione delle mie speranze aveva fatto chiarezza. Da quel momento evitai di rivedere Roberta. Cercai di convincermi che la vita sarebbe andata avanti lo stesso, che un giorno è sempre uguale a quello precedente e a quello che segue, che il tempo datoci in sorte non può essere cambiato o ripercorso, ma procede inesorabile e insondabile. E un’ansia sorda e sottile accompagnava i miei passi.
La rividi due giorni prima del matrimonio: avevo voluto portarle un dono che la facesse pensare a me, che sfiorato o spolverato, le suscitasse vibrazioni e ricordi. Le chiesi se era felice. Abbassò lo sguardo: “Lui mi ama molto, sai. E’ un tipo pratico. Vive per me. Io gli voglio bene ma… forse avrei preferito un altro tipo d’uomo. Uno con cui poter parlare apertamente, condividere le emozioni della musica, della letteratura, dell’arte. Uno come te, insomma…” .
E il mio cuore rimbalzò, sballottando violento da un punto all’altro del corpo. Persi il controllo delle mie azioni e tacqui. Ero giunto di nuovo in ritardo. Gli anni che seguirono videro estenuate le mie risorse dallo studio e dal lavoro.
I tentativi di intraprendere rapporti affettivi caddero tutti come birilli per la mia mancanza di coinvolgimento. Solo una volta pensai di innamorarmi, ma la brevità del successo, conteneva il germe della fine. Lei era ancora lì, ancorata al mio cuore e lo tratteneva col suo dolce peso. Avevo saputo di recente che aveva lasciato il marito e con la figlioletta era tornata nella vecchia casa lì accanto. Io avrei acquistato quella vicina e… forse… chissà. Cercai di assaporare per un istante una vittoria che ritenevo probabile, come fa un tiratore che dopo migliaia di colpi andati perduti, spera di centrare il bersaglio. Ma un vacillamento interno mi avvertì che potevo sbagliarmi ancora. Si lo so – pensai – che il tempo rotola in avanti e non fa retromarcia, ma come dice Giambattista Vico, esistono i corsi e i ricorsi della storia. Ebbene, farò in modo che presto, allargando intenzionalmente le fronde della siepe, abbia luogo un nuovo inizio, questa volta con epilogo felice.