Si può rimanere anziani attivi anche contrastando il naturale decadimento cognitivo, con qualche accorgimento. Perché avere cura della pressione, fare attività fisica ed evitare il fumo possono essere un valido “scudo” per la memoria
«Oggi nessuno penserebbe di dire che sei vecchio tra i sessantacinque e i settantacinque anni. In quella fascia d’età, tranne purtroppo eccezioni legate a malattie, gli anziani – che chiamiamo young old, cioè gli anziani giovani – contribuiscono ancora allo sviluppo della comunità cui appartengono». La vede in modo molto chiaro il professor Giovanni Capobianco, direttore della struttura complessa di Geriatria dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma. Lo raggiungiamo proprio mentre, nel Lazio, la Regione sta stanziando 1 milione di euro per attività culturali, laboratori e percorsi a favore degli anziani, per contrastare fenomeni di isolamento e favorire l’inclusione. Con Capobianco vogliamo capire quale sia la chiave per mantenere attiva la mente in età matura scongiurando il declino cognitivo.
Oggi, professore, si vive sempre più a lungo. Anche l’invecchiamento è cambiato?
L’allungarsi della vita ha spostato il concetto di invecchiamento più avanti. Prima, tradizionalmente, si parlava di invecchiamento quando terminava l’età lavorativa. Oggi, la vera differenza non la fa tanto l’età quanto il tema della fragilità. Essere settantenne di per sé non vuol dir niente, mentre se si è fragili il discorso cambia ed è a questa fragilità che politica, organizzazione, il mondo della sanità devono in qualche modo prestare maggiore attenzione.
Probabilmente qualcosa è anche cambiato rispetto alla cura che abbiamo della nostra mente: non più e non solo verso il corpo.
In passato, c’era meno attenzione ai problemi della mente. Se ricordate, negli anni Cinquanta, si parlava di arteriosclerosi e nessuno si sarebbe sognato di parlare di malattia di Alzheimer. Quella condizione veniva considerata un evento quasi ineluttabile con il quale, anche dal punto di vista sanitario, si stava pressoché con le braccia conserte.
Oggi perciò essere vecchi può significare molto poco. Sono le fragilità a segnare semmai il declino, non l’età.
Oltre i sessantacinque anni, la prevalenza della demenza – cioè di una malattia dei sistemi cognitivi che comporta l’impatto sulla vita relazionale di un soggetto – è del 6%. Ma se si separano le decadi di età, se andiamo negli ultrasettantacinquenni, il dato aumenta – diventa il 15% – per arrivare negli ultraottantenni/ultra-ottantacinquenni fino a quasi alla metà dei soggetti: al 40%. Quindi noi invecchiamo e abbiamo maggiore rischio di sviluppare un declino cognitivo. Il declino cognitivo che però non si sviluppa come demenza è una condizione che fa parte dell’invecchiamento normale. Per esempio, avere una certa debolezza della memoria a breve termine è una caratteristica dell’invecchiamento: una caratteristica naturale. La sfida è poter evitare che la naturale modificazione della memoria, ad esempio, configuri un declino cognitivo che poi impatti sulla vita quotidiana.
Cosa è bene fare per prevenire?
Aver spostato più avanti l’età della vecchiaia significa aver portato maggiore attenzione sul fatto che le persone tra i sessantacinque e i settantacinque anni in buone condizioni cognitive sono ancora utili. In più, il progresso scientifico ha portato una maggiore attenzione su quelli che sono gli aspetti diagnostici, terapeutici e anche preventivi dei disturbi cognitivi. Per quanto riguarda il declino cognitivo, noi sappiamo che ci sono dei fattori purtroppo non modificabili: l’età, il sesso – quello femminile, avvantaggiato dalla vita più lunga, tende ad essere più colpito dal declino cognitivo – e la terza cosa è la familiarità: cioè, noi non ci scegliamo i genitori, per cui c’è una certa predisposizione genetica. Non è una genetica diretta.
Vale a dire che se un genitore ha avuto la malattia di Alzheimer non è detto che i figli abbiano la malattia di Alzheimer
Esattamente. Si tratta di una familiarità per cui è possibile che, in alcune famiglie, ci sia un’alterazione genetica che predisponga ad avere la malattia. In poche parole è come se avessimo nella macchina un difetto che, magari, non si manifesterà mai nella nostra vita; però poi andando in una strada piena di ciottoli, con la sabbia, la macchina può avere un problema.
Perciò, una volta chiariti i fattori immodificabili, cosa possiamo fare? Dove intervenire per allontanare il più possibile il declino cognitivo?
Uno dei fattori di rischio è la sedentarietà che spesso abbiamo collegato alle malattie cardiovascolari. Oggi, invece, si è visto che l’attività motoria è protettiva per le funzioni cognitive. Chi si muove di più, si ammala meno di malattie della mente, cioè di declino cognitivo. È un po’ il vecchio adagio mens sana in corpore sano. L’altro elemento è la correzione del deficit uditivo. Sentirci poco – essere ipoacusici – può trasformarsi in un problema. Il lobo temporale, dove arrivano le voci, contiene anche i centri della memoria. Quindi, dove arrivano i suoni è la stessa zona che è importante per ricordare. Sentire poco significa far arrivare a quel lobo temporale pochi stimoli. È ormai chiaro che le persone ipoacusiche tendono a sviluppare maggiormente la malattia di Alzheimer.
Esiste un terzo fattore di rischio, un ulteriore campanello d’allarme da non sottovalutare?
Il terzo fattore importante è quello della scolarità. Si è notato che le persone che hanno una maggiore scolarità – che hanno avuto più facilità di accesso ai libri, hanno letto, hanno studiato, hanno applicato la loro memoria per ricordare – tendono a sviluppare meno il declino cognitivo. Il motivo potrebbe dipendere dal fatto che abbiamo la cosiddetta Brain Reserve (riserva di cervello): più studiamo, più incontriamo e più le sinapsi del cervello – cioè i collegamenti tra neuroni – sono maggiori. Tutto ciò che stimola il cervello, lo rende più attivo. Per accorgersi che una persona trilaureata è demente, bisogna aspettare del tempo perché la sua riserva cognitiva lo maschera molto.
E la socialità? È nostra alleata?
Uno dei fattori di rischio più forti è la solitudine. La pandemia, come sappiamo, ci ha costretti tutti dentro casa: una delle caratteristiche più evidenti è che, a distanza di due anni, nel centro che dirigo sui disturbi per le demenze, abbiamo visto tutti i pazienti che, nei due anni di stimoli ridotti o assenti, hanno avuto un peggioramento delle proprie condizioni. Ciò significa che la solitudine e l’isolamento sono due elementi fortemente rischiosi per lo sviluppo e la progressione del declino cognitivo. Ma mi lasci aggiungere un altro aspetto.
Quale?
Esistono fattori di rischio dovuti all’apparato cardiovascolare – fumo di sigaretta, ipertensione o diabete – che hanno anch’essi un po’ a che fare col declino cognitivo. I fumatori non se la cavano bene in quanto a memoria, difficoltà possono avere anche gli ipertesi non controllati. Se dovessi dire cosa bisogna fare: smettere di fumare e curare bene pressione alta e diabete.
© Riproduzione riservata