Spezzino d’eccezione, al cabaret e alla Tv, affianca da anni la scrittura anche come autore di opere comiche, fiabe e racconti sulla provincia ligure. Tra animali parlanti e creature leggendarie, con creatività e ironia, unendo intensità e leggerezza alla sua attitudine narrativa.
Lo spezzino Dario Vergassola è un comico dalla battuta immediata, scoperto nel 1988 da Giorgio Gaber. Ha partecipato a numerosi programmi televisivi, film e spettacoli teatrali, proponendosi sempre con uno stile pungente e autoironico. Numerosi i suoi libri, tra cui il romanzo La ballata delle acciughe, la conversazione con Moni Ovadia Se vuoi dirmi qualcosa, taci e il recente Storie vere di un mondo immaginario. Cinque racconti delle Cinque Terre.
«Le Cinque Terre, rispetto ai tanti luoghi meravigliosi d’Italia, non hanno una terribile periferia che contorna bellissime piazze. Da noi c’è solo il mare. Le piazze sono quelle semplici semplici dei disegni dei bambini, la chiesetta, lo slargo, un palazzotto. La cosa che lascia commossi è che interi paesi si possono riprendere in una foto, senza che all’interno dell’inquadratura ci sia qualcosa che deturpa. La fortuna è stata quella di non aver costruito nulla che potesse diventare qualcosa di fuori posto, ma è stato un avvenimento un po’ fortunoso. Tra Riomaggiore e Manarola c’è la Via dell’Amore, non i supermercati o le fabbriche, è come in posti tipo l’Islanda o l’Irlanda. Non vedi veramente nulla di inquinante, come possono essere i cavi, le antenne, quella roba lì… Il paesaggio ti fa ritornare indietro di qualche secolo».
Non tutti i racconti di Storie vere di un mondo immaginario sono stati scritti durante la pandemia…
Sì, uno è nato qualche anno fa, quando Gino Strada ha chiesto a dei collaboratori di Emergency un racconto per un libro che servisse a finanziare l’associazione. Io avevo scritto la storia di un ragazzino di Manarola – dove ho una casa, mio papà è nato lì vicino, la frequento spesso – che si innamora di una turista, ma non ha il coraggio di dirglielo perché diventa tutto rosso. Pesca una triglia magica che gli promette di far avverare tutto quello che lui vuole. E la storia continua finché con un certo cinismo un po’ ligure, termina con un salto mortale un po’ all’indietro. Succede anche negli altri racconti. Durante il lockdown, mi sono detto: «visto che ho fatto Manarola, perché non continuare con Riomaggiore, Monterosso e le altre?». Mi sono messo lì e piano piano li ho finiti. Ho aggiunto un epilogo in cui vado al mercato del pesce e parlo con il cappone, un pesce con gli occhi all’infuori molto brutto – glielo dico e lui mi risponde giustamente: “sarai bello te!” -, che mi narra tutte le schifezze che stiamo facendo al mare.
Lei ha debuttato come scrittore “serio” alcuni anni fa con il romanzo La ballata delle acciughe…
Quel romanzo è nato quando c’è stata la moda per i comici di scrivere libri, raddoppiando o triplicando quello che dicevano sul palco. Partendo dal nostro repertorio abbiamo fatto più libri che potevamo, facendo anche dei disastri, tanto che la gente non ne poteva più. La ballata delle acciughe è la storia di uno del bar che frequento, che lascia in eredità una serie di cose dal valore affettivo e non economico, dischi, libri, oggetti, a patto che un altro del bar, il più stanziale, il meno casinista, prenda una telecamera e vada, con viaggio già pagato, nel luogo di cui parlavamo sempre, Woodstock.
Woodstock per noi era la quotidianità, il film lo avevamo visto 450 volte, passavamo i pomeriggi a parlarne, suonavamo in un gruppetto, e andarci per me è sempre stata una grande curiosità. Lui va e ovviamente non trova nulla, torna e ritrova la banalità del bar, che però oggi, a fronte del lockdown, di questo virus terribile, appare in tutta la sua “necessità” di routine che va ridisegnata e cui va dato più spolvero. Io ho sempre letto tanto. Mia mamma andava a servizio da gente che aveva librerie piene. Ricordo la figlia di un avvocato che possedeva una collezione di Topolino meravigliosa, oppure un altro ragazzo che aveva tutti i Linus. Quando andavo alle elementari e alle medie seguivo mia madre e mi mettevo a leggere. A casa nostra non c’era niente, figlio unico dormivo in sala in un letto a ribalta. La passione del leggere mi è rimasta anche dopo i 18 anni, quando di solito si comincia, perché non ti dicono più di farlo. Trovo però nella mia scrittura, quando si va verso le cose serie e impersonali, di avere un limite: sento, per una mia timidezza che nessuno vede ma che c’è, di dovermi fermare quando si arriva a discorsi troppo impegnati. Così con un salto mortale, un carpiato e una battuta, riporto tutto su un terreno più scherzoso. È un po’ quello che si fa nella vita normalmente.
Lei ama dire che “piuttosto che pagare un analista per parlare di me, ho pensato che sarebbe stato meglio raccontare le mie vicissitudini ed essere pure pagato per farlo…”.
Andavo al cabaret Zelig di Milano, rientravo di notte a Spezia in auto prendendo le mie 20 gocce di ansiolitico per fare la Cisa. La battuta era che 5 le davo anche alla mia Fiat 127, perché anche lei non era convinta che valesse la pena fare un viaggio così lungo per uno che non si muoveva mai di casa. Lì raccontavo cose su di me, sui miei figli, quello che ci succedeva, gli strafalcioni che diceva mia mamma a casa, superando la paura non tanto di salire sul palco, ma di tenere l’attenzione. Se, come è successo, quando dico la battuta: “ho baciato una ragazza di Bolzano: era bilingue”, c’è il gelo, mi terrorizza. Per questo mi sono messo a fare delle canzoncine: alla fine di una canzone si capisce che uno deve battere le mani. Erano una formuletta a livello psichiatrico per superare l’angoscia che nessuno ridesse. Da lì è venuto fuori questo personaggio, che non è un personaggio, se Dio vuole, è una specie di perditempo che racconta quasi una quotidianità nel banale, con l’aggiunta – che abbiamo imparato nei bar ma che mi veniva bene già dalle elementari – di sparare battute in velocità. Non pensavo pagasse, ma quando me ne sono accorto è stata una gioia immensa.
Non crede che i comici, con il politically correct e il non poter più parlar male di nessuno siano una razza in via di estinzione?
I comici credo che si siano ormai estinti. Perché c’è una sorta di omologazione generale, e in Mediaset o Rai c’è sempre chi è più realista del re. E poi siamo stati sorpassati, non a causa del politically correct che non permette più nemmeno di dire quello che si diceva al bar magari per maleducazione, bensì da parte dei politici. È difficile eguagliarli in quello che dicono.
Rimane quasi solo l’autoironia, di cui lei peraltro è uno specialista…
Io vengo da una periferia molto triste. La Spezia prima del turismo era una città militare, dove non c’era nulla, nessuna donna in giro, solo dei bar. Noi stavamo lì, davanti alle saracinesche abbassate alle nove e mezza di sera. E lì l’unica arma era l’autoironia: ci dicevamo le peggiori battute su noi stessi a una velocità pazzesca, riuscendo a capire quanto eravamo in confidenza con gli altri. Superavamo le nottate scherzando e perdendo tempo, secondo me una delle arti più fantastiche e anche nobili dell’uomo.
Dicono che spesso i comici nella vita quotidiana sono persone malinconiche. Lei com’è di carattere?
Io sono tristissimo. Sono un po’ come Madame Bovary. Mi piacciono più le situazioni con i temporali che con il sole. Più il mare è in tempesta e più mi affascina. Ho questo carattere che ho preso un po’ da mio padre, un uomo duro delle Cinque Terre, questi portatori di corbe da 40 chili sulla testa, anche le donne, quando dicono che i liguri sono tirchi, non sanno che quando ti offrono un bicchiere di vino ci sono 18 chilometri a piedi lungo una scalinata, è difficile paragonarli ad altri contadini. Io piango quando a Masterchef eliminano uno, e racconta che la mamma lo ha mandato lì ed è contento anche se è eliminato. Io cambio canale e mia moglie dice che sono scemo. Anche se faccio delle cose ciniche, sotto c’è questa realtà, questa schizofrenia omeopatica, però abbastanza sana.
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