Daniele Guelfi. È nato e vive a Pisa. Partecipa a diversi concorsi ottenendo lusinghieri riconoscimenti. Al Concorso 50&Più per la settima volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa.
Se ne stava seduto nell’angolo meno trafficato del locale, come al solito. Il bar, oltre al vano principale col bancone, si componeva di altre tre salette, dove consumare con calma la colazione al mattino o il thè a metà pomeriggio. Tre piccoli vani, discreti e sufficientemente silenziosi, rifugio di coppie attempate, spesso accompagnate da un canetto agghindato come un neonato, oppure di un viaggiatore di commercio perennemente attaccato al cellulare, ma soprattutto dal pensionato intento alla lettura del quotidiano, con particolare interesse alla cronaca locale. La stanza era sempre la solita. Nell’angolo opposto, l’altro consumava il cappuccino, vanto della barista, mentre seminascosto da “Il Tirreno”, con la sinistra reggeva la tazza, in maniera tanto autonoma quanto sicura. Non si conoscevano e mai si erano presentati. Quando capitava che uno, per sedersi o uscire, transitasse davanti al tavolo dell’altro, una occhiata e un sorriso, appena accennati, davano un senso alla loro comune frequentazione del locale. Dall’aspetto, coetanei. Da poco in quiescenza, come vengono solennemente definiti quei soggetti che, per l’età, non sono più adatti al ciclo produttivo per la società, ma che, in realtà, mostrano ancora una vitalità solo lievemente adombrata da qualche personale, sgradevole vicenda.
“Buongiorno. Le spiace se mi siedo qui, vicino a lei?”.
“Si figuri! È un piacere. Possiamo conoscerci. È uno strano posto, questo, lo crede? Sempre affollato, come pochi, eppure qui riesco a sentirmi solo. Purtroppo”.
“Le dirò, è proprio questo il motivo per cui anch’io lo frequento. Esattamente come lei dice. Anche quando è pieno, qui, nel mio angolo, ho la sensazione della solitudine”.
Si scrutarono per un lunghissimo attimo. In sintonia.
“Senti amico. Ci diamo del tu, vero? Sono poco propenso all’etichetta. Mi chiamo Enrico”.
Detto tutto d’un fiato, mentre allungava la mano aperta.
“Lorenzo. Piacere di conoscerti. Era da un po’ che aspettavo questo momento”. Le due mani si strinsero, con una convinzione che maturava da tempo.
Negli umani rapporti ci sono rituali mai codificati, che, nella loro semplicità, racchiudono il segreto della civile convivenza. Un stretta di mano, spontanea, sincera, vale quanto un intero trattato sull’amicizia. In ispecie quando trae origine da comuni esperienze, delle quali i due autori dell’incontro, non avevano, né potevano avere, alcuna conoscenza. Al momento.
Enrico e Lorenzo, coetanei, pensionati. Due persone che hanno consumato la maggior parte della loro esistenza, svolgendo un lavoro atto a soddisfare i bisogni propri e della famiglia, con dignità.
“Quarant’anni alla Sangobè. Ai forni. Sessanta gradi. Quando sortivo dalla fabbrica e fuori, di luglio, c’erano trentanove all’ombra, mi sembrava d’avè bisogno d’un giacchetto. Ma la paga era buona, per quel tempo. Bastava adattassi, e c’ho mantenuto la famiglia. Te?”.
“Vita militare. Marina. Livorno, Spezia, Taranto e tant’acqua. Giorno e notte. La guerra del Golfo, la ronda nel Mar Rosso a caccia di pirati. Mesi e mesi a giro per l’Oceano. Ogni tanto, un paio di settimane a casa, e poi ripartenza. Così”.
“Mbè, tutto sommato una vita interessante. Molto meglio della mia, se vogliamo. Hai studiato per fare questo. Io mi sono fermato o, meglio, mi son dovuto fermà alle medie. Mi sarebbe garbato fare le industriali, diventà un perito, ma in casa c’era bisogno di un lavoro e di uno stipendio. Mi padre, anche lui nel vetro, s’era beccato una silicosi, di quelle che dopo manco quattr’anni dall’accertamento, l’ha portato alla tomba Come succedeva a quel tempo io, il figliolo, mi presero. Anch’io ho la mì dose di silicosi, la fatica a respirà ma, insomma, una buona pensione”.
“Figli?”.
“Una figliola. Quasi trent’anni. Vedovo. Da cinque anni”.
La risposta uscì tutta d’un fiato, senza inflessioni. Come una lezione a memoria.
Il Tenente di Vascello Lorenzo, dopo una corposa pausa frutto evidente della repentina risposta del nuovo amico, si accinse a narrare di se, della sua vita..
“Come t’ho detto, una vita in mare. Oddio, se dovessi raccontare tutte le vicende di questa specie di lavoro una faccenda di più di trent’anni a bordo dopo l’Accademia, il tirocinio e l’esperienza a terra orbene, se proprio dovessi farlo ci butterebbero fuori alla chiusura del locale. Diciamo che n’ho passate di belle e di brutte. Roba da rammentare con la bocca di traverso piuttosto che col sorriso a trentasei denti. Ma è stata la mia vita, quella sognata da ragazzo sotto la spinta di mio padre che, da ammiraglio a riposo, mi vedeva ai vertici del corpo. I momenti più brutti quando s’era in guerra. Facile a dirsi, ma per capirne il significato, bisogna esserci. Potevo restare ancora qualche anno ma, ormai lo confesso ero un po’ nauseato. Ed eccomi qui, a far la vita del pensionato, con il mal di terra. Ogni tanto”.
“Figli?”.
“Ora nessuno. Avevo una figlia. Era lo scopo delle mie rare licenze. La vedevo crescere, sempre più bella. Alta, capelli biondi e occhi di un celeste! Come sua madre, mia moglie. Ci siamo sposati dopo una settimana dalla conoscenza. Cerimonia e viaggio di nozze, lo crederai? A bordo della fregata che comandavo in quel momento. Roba da matti, a pensarci. Salita a La Spezia, dopo un pranzo, fra amici e commilitoni, al circolo ufficiali, scaricata a Taranto dopo tre giorni. Dovette prendere il treno per tornare a casa. In pratica, una vedova bianca dopo appena una settimana di matrimonio. Roba da matti! Veramente”.
“E poi?”
“Poi…. si era laureata, bene. Architettura, a Firenze. 110! Ero in navigazione, quel giorno. Ritorno a La Spezia. Mi telefona Rosanna, mia moglie, la bimba ha preso 110! Piangeva e, a essere sinceri, qualche lacrima anch’io. Siamo all’Elba e si fila a base. Ci vediamo laggiù. Ricordati la deviazione per Spezia! Bacia la bimba e dille che babbo sta arrivando. Ero emozionato. Se solo ci penso…”
Si girò verso il lato opposto, per nascondere una lacrima. Enrico gli dette un leggero colpetto sulla spalla.
“E poi?”
“L’avrai letto sul giornale o sentito in televisione. Il terzo ci fece un servizio lunghissimo e accurato. Alla deviazione, all’uscita per Viareggio una macchina, in senso opposto, le taglia la strada. Sterza per evitare e sbatte contro un pilone. Tutte e due! L’altra macchina si ferma contromano. In tre. Due uomini e una ragazza. Ubriachi e drogati. Capito? Tre ubriachi e drogati! Maledetti!”.
A quel punto, non resse. Si prese la testa fra le mani e, silenzioso, pianse. E Enrico con lui.
“Cinque anni fa, Lorenzo. Quando è morta la mì moglie Irene. Infarto, a sentì la notizia. Un colpo! Sei fortunato, Lorenzo. Sono morte abbracciate!”.
Si alzò, di colpo .Come d’incanto scomparvero le lacrime e la rabbia gli sconvolse il viso. Stava per colpirlo.
“Fortunato? Stupido! Non sei altro che un povero e lurido stupido! Ecco cosa sei!”.
“Perdonami, Lorenzo. Perdonami”.
“Una ragazza, drogata…che è ancora viva. Drogata, e viva. Drogata… viva…”
Si allontanò ripetendo queste parole. Come una litania. Barcollando.
Lorenzo lo seguì con lo sguardo. La rabbia si sciolse, in pietà. Andò alla cassa e pagò. Anche per Enrico.