Non siamo tutti artisti. Anzi. Se pure siamo convinti – se non addirittura assolutamente certi! – di avere ognuno la nostra madeleinette capace di smuovere la memoria, facendo riaffiorare alla coscienza tutto un mondo dimenticato e quindi di attivare la nostra personale “ricerca del tempo perduto”, non è così.
Tutti sanno che il tipico dolcetto francese risvegliò in Marcel Proust i ricordi dell’infanzia. E divenne così il catalizzatore del suo capolavoro letterario Alla ricerca del tempo perduto, sorretto dalla tesi che nell’arte e con l’arte è possibile ritrovare e rivivere il tempo “perduto” in precedenza. Ma – dicevamo – non siamo tutti artisti. Anzi, facciamo persino fatica, nonostante l’ironia diffusa nelle pagine, a leggere quell’enorme monologo interiore intriso di un senso drammatico dell’esistenza, con la sua scrittura piena di frasi lunghissime e aggrovigliate di subordinate. È così diverso dai romanzi di oggi, rapidi, con frasi brevi, senza aggettivi, quanto lo è il languore dalla frenesia.
Il languishing, un’eredità del Covid? Oppure no?
Il languishing – termine coniato nel 2002 dal sociologo Corey Keynes per indicare l’apatia e la rassegnazione di fronte alla realtà, che porta a un’inattività devitalizzante senza benessere, né scopo, né gioia – si potrebbe tradurre come “languore”. Ed è una delle reazioni cui ci ha portato il Covid-19.
Lo psicologo Adam Grant della University of Pennsylvania l’ha ipotizzata, in un articolo sul New York Times, come “l’emozione dominante del 2021”. Non sta succedendo: quel “senso di stagnazione e di vuoto”, che fa sentire “come se ti stessi confondendo tra i giorni, come se guardassi la tua vita da un finestrino appannato”, è rimasto largamente minoritario. Per certi versi fortunatamente, per altri pericolosamente.
La smania di recuperare il tempo perduto
Oggi assistiamo soprattutto alla smania di recuperare il tempo perduto. Alla frenesia di tornare alla piena attività, di accelerare fino ai limiti del possibile, di fare, fare, fare. Ben oltre lo stato di vitalità emozionale che fa “fiorire” la persona, il flourishing descritto dagli psicologi Martin Seligman e Mihály Csikszentmihalyi nel 2000. Stiamo assistendo a una pressoché generalizzata impazienza di ritornare al “bel tempo andato” del 2019 con l’aggiunta degli interessi non maturati nei due anni successivi e alla spinta a superare ogni barriera pur di riuscirvi in fretta. Con l’ansia da prestazione dettata dalla vera o presunta Covid-liberazione.
Il primo sintomo è stato lo scorso aprile con il cinema milanese sold out al primo spettacolo dopo il lockdown alle sei del mattino. Ma forse la prima dimostrazione di quanto possa essere pericolosa questa impazienza è stato l’incidente della funivia del Mottarone, causato dalla voglia di aprire a tempo pieno, di recuperare il tempo perduto senza soste per i controlli, dimenticando la sicurezza perché “è impossibile che succeda qualcosa”, perché bisogna fare l’incasso più cospicuo, specie adesso che i turisti sono ritornati a frotte.
Normalizzare ogni cosa, nonostante tutto
La voglia di normalizzare a tutta velocità diventa di fatto anormalità, nasconde la fretta e la conseguente possibile distrazione. “È come se avessimo costruito la più veloce macchina da corsa mai immaginata – scrive il saggista americano Fareed Zakaria nel libro Il mercato non basta – e la stessimo guidando su un terreno sconosciuto e privo di segnaletica”.
La segnaletica sono i limiti entro cui dovrebbe muoversi ogni attività e che oggi sembrano incerti come un miraggio nel deserto. Perché le indicazioni che si sono succedute durante la pandemia sono state talvolta contraddittorie, i pareri degli scienziati in costante evoluzione e le regole sembrano tuttora cambiare da un momento all’altro. Anche l’insicurezza, dal canto suo, contribuisce al frenetico cogliere al volo ogni opportunità, rischiando più del solito, più del necessario, perché, come diceva Lorenzo il Magnifico, “del doman non v’è certezza”.
L’ansia di fare a tutti i costi per sopperire al nostro disagio interiore
L’ansia di fare coinvolge ormai ogni realtà, sia il mondo del lavoro che la vita privata, e in questa situazione i rischi sono all’ordine del giorno. Anche emotivi, anche sociali. Nella “modernità liquida” individuata dal sociologo polacco Zygmunt Bauman in cui ci hanno immersi i flussi e i riflussi della globalizzazione oggi ci sembra di navigare a vista, perciò la soluzione è mandare il motore al massimo, quasi senza neppure individuare la meta. Con un unico perché: sopperire al disagio che ci è rimasto addosso, abbarbicato come un’edera che, con il tempo, è capace di sgretolare i muri delle nostre residue certezze.
Eppure lo sappiamo che, sebbene possa accelerare la creazione di nuovi equilibri, non è la soluzione. Ce lo cantava già nel 1984 (prima dello stesso “movimento” flow che però ha preso campo solo nel mangiare) Renato Zero nel brano intitolato appunto Frenesia: “Chissà se è giusto correre/ Frenetica mania/ La vita ci sorpasserà, così/ E dopo tanto correre, noi qui/ Poi soli e malinconici…”. Qualche artista che indica la retta via c’è ancora.
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