Dal bianco e nero ai colori, da “Non è mai troppo tardi” a “C’è posta per te”, da Mike Bongiorno ad Amadeus. Quali sono i passaggi più significativi e iconici che hanno segnato la storia della televisione italiana dal 1954 a oggi?
Da 69 anni la televisione italiana è compagna – e in certi casi anche maestra – di vita. Molti sono i risvolti che ne hanno segnato la storia: ne abbiamo parlato con Anna Bisogno, professore associato di Cinema Radio Televisione presso la facoltà di Economia nel corso di laurea in Scienze e Tecnologie delle Arti, del Cinema e dello Spettacolo dell’Università Telematica “Universitas Mercatorum”. Esperta di storia della televisione italiana, cultura visuale e degli intrecci tra la Tv e i social network.
Il 3 gennaio del 1954 dagli studi Rai di Torino cominciano le prime trasmissioni della televisione nel nostro Paese. Cosa vuol dire per gli italiani quel momento e quali sono i programmi che colpiscono negli anni successivi?
La televisione presenta agli italiani i vantaggi veri o presunti della nuova situazione politica ed esibisce il benessere prima ancora che fosse materialmente arrivato nelle famiglie, anche attraverso la presentazione di esempi o storie presi dalla realtà americana o da quanto avveniva nelle parti più avanzate dell’Europa. La televisione fornisce i modelli sociali del consumo, insegna a consumare, fa conoscere le marche, i prodotti, spiega come usarli (ad esempio, come si fa il tè) e perché sono importanti. Tutto ciò passa attraverso la sorvegliata pubblicità televisiva di Carosello (1957-1977), dove il messaggio promozionale è contenuto da precise regole stilistiche e narrative, ma passa trasversalmente nell’intera programmazione. Un modello pedagogico indubbiamente c’è, ma esso si incarica anche di educare alla modernità. Da questo punto di vista, il quiz è paradigmatico. Lascia o raddoppia?, in onda dal 1955 al 1959, ad esempio, è una trasparente metafora dell’ascesa sociale attraverso il duro studio che separa il concorrente dalla gente comune dalla quale pur proviene. Miracolo economico e televisione si sono date manforte in uno dei più veloci e radicali cambiamenti sociali che l’umanità abbia mai visto.
Negli anni Ottanta l’affermazione di Fininvest dà inizio al duopolio successivamente regolato dalla Legge Mammì. Come avviene questo passaggio e com’è vissuto dagli italiani?
Fu un passaggio complesso soprattutto sotto il profilo giuridico. In quella circostanza furono necessari ben due pronunciamenti da parte della Corte Costituzionale che non aveva precedenti formali, senza contare il Lodo Mondadori. Nella società italiana, però, i cambiamenti avvengono prima che il legislatore li metta a sistema: il monopolio della RAI e la politica pedagogica sembravano essere inattuali rispetto a un Paese che, ad esempio, stava diventando (anche) laico, che stava chiedendo nuovi diritti per le donne e per i giovani. Insomma, era necessario un racconto più plurale e libero che non poteva essere garantito solo da una legge di Riforma (1975) e/o da una lottizzazione delle reti secondo gli esiti elettorali referendari sul divorzio. E poi una forte spinta arrivava anche dalle grandi catene di distribuzione che spingevano per avere spazi finalizzati alla promozione dei loro prodotti che non fossero soltanto quelli tradizionali. La liberalizzazione dell’etere fu utile anche alla radio e alla televisione del servizio pubblico che, di fronte alla concorrenza, furono chiamate a una necessaria quanto inevitabile “sintonizzazione” sullo spirito del tempo.
L’arrivo del digitale terrestre rivoluziona nuovamente lo scenario, aumentando l’offerta e il contenuto. Secondo lei, è ancora possibile esercitare un’influenza sul pubblico in questo nuovo assetto?
In questa nuova fase c’è una variabile fondamentale da considerare e cioè che lo spettatore è esso stesso creatore dei contenuti che decide di guardare, sia sotto il profilo della produzione che sul versante della selezione ampia di cui dispone attraverso le diverse piattaforme. Lo spettatore sa di essere profilato e dunque più che influenzato è consigliato e incuriosito. È la televisione lineare ad esercitare ancora una qualche influenza. Essa resta il grande narratore collettivo del nostro Paese – lo ha confermato durante l’emergenza sanitaria legata al Covid 19 – ma anche un po’ un “gigante dormiente”, che rischia poco: le novità vengono subito cancellate se non hanno un riscontro immediato, si lavora poco sullo sviluppo dei prodotti. Va inoltre considerato che i contenuti televisivi trasmigrano sui social media, sia attraverso i nuovi contenuti creati appositamente dagli editori sia tramite l’attività di commento, discussione, “engagement” dei pubblici.
Con le piattaforme streaming e on demand di cui disponiamo, quale sarà il futuro della televisione?
Intanto possiamo dire, a chi ne celebra continuamente il funerale, che la televisione non è morta. Si è – per così dire – trasferita. Forse il vero defunto è il televisore, quello tradizionale, quello ingombrante che faceva parte dell’arredamento della casa e che scandiva la giornata degli italiani, seguendola attraverso una programmazione parallela ma mirata. Oggi il televisore è uno schermo che diventa sempre più piccolo a seconda del dispositivo che si sceglie. Lo spettatore guarda di più la televisione anche se in maniera frammentata e volubile, sempre alla ricerca della formula che ottimizzi il tempo a disposizione, quello della visione e la sua gratificazione visiva. La televisione è già nel futuro.
© Riproduzione riservata