Il concetto di felicità, in età adulta, cambia e assume nuove forme. Ma la sostanza è che la felicità è vivere la propria vita in una serena normalità, senza angosce per il futuro. Stando sempre attenti a non incappare nel nemico numero uno della vecchiaia: la noia
È una domanda che molti si pongono prima della loro vecchiaia e altri quando ne sono immersi.
Provo a dare una risposta all’interrogativo del titolo, per arricchire il dibattito tra pessimisti e ottimisti, partendo però da un’idea ben chiara: a qualsiasi età è possibile essere felici.
Ma come fare per gustare anche da vecchi la felicità?
Alcune premesse oggettive.
Il passare degli anni non è un evento di perdita senza fine; la vita non è un capitale biologico, clinico e psicologico che viene eroso dal tempo. Al contrario, ogni atto che la persona compie lascia una traccia, di tipo diverso, ma ugualmente incisiva. Sulla base di una copiosa letteratura scientifica e dell’esperienza clinica è possibile affermare che chi si consuma dentro la vita poi la ritrova più ricca e amica. Il punto è il seguente: l’impegno, il lavoro di ogni tipo, la dedizione agli altri produce una difesa della propria salute fisica e psichica, che a sua volta induce felicità, perché la persona si sente capace di esercitare ancora un ruolo nella vita, in mezzo ai suoi simili. Questo atteggiamento è possibile ai vari livelli di autonomia conservata in età non più giovane; c’è sempre uno spazio per uscire dalle proprie personali problematiche, per mettersi in contatto con gli altri e quindi cercare di stare meglio.
La ben nota frase di Seneca: «L’uomo saggio deve vivere quanto deve, non quanto può» riassume in modo immaginifico il concetto della responsabilità verso gli altri, e oggi diremmo anche verso il creato. Perché nessuno è autorizzato a rinunciare a vivere (non tanto biologicamente, ma umanamente), anche se stanco e sfiduciato, mentre la saggezza induce a continuare nella responsabilità della cura degli altri, il “deve” che caratterizza la nostra vita.
Qualcuno potrebbe ritenere irrealistico il collegamento tra cura degli altri e felicità, perché troppe sono sotto i nostri occhi le condizioni di dolore che sembra impossibile vincere o anche soltanto lenire. Non vorrei fare un’analisi precisa delle condizioni che si oppongono alla relazione vecchiaia-felicità; è però necessaria per convincere che l’affermazione non è ideologica, ma concreta. Chi è solo difficilmente è felice perché sogna la relazione con famigliari e persone amiche, sogna che qualcuno risponda alle sue chiamate di aiuto, quando la disperazione dilaga nelle giornate. Chi è responsabile della realizzazione di questi sogni, anche se in modo parziale, se non chi conosce la gioia di una vita realizzata insieme con altre donne e altri uomini? In questi casi si potrebbe dire che la felicità in solitudine può essere raggiunta se chi la possiede è in grado di trasferirla. È una condizione obbligatoria, perché per definizione la felicità deve essere trasmissibile; in caso contrario, è solo una parvenza, perché chi è felice anche da vecchio deve donarsi e donare felicità.
Ma è felice l’ammalato cronico, che ha perso l’autonomia, chi non è più in grado di ricordare? È una felicità tutta particolare, ma non possiamo cancellare dalla nostra prospettiva le persone che sono aiutate a vivere, che sviluppano relazioni intense d’amore con chi vive vicino a loro. La rete dell’amore prende dentro chi aiuta e chi è aiutato ed è capace di produrre felicità. In questa prospettiva si costruisce anche la felicità del caregiver che, immerso nella fatica fisica e psicologica dell’assistenza, riesce a trarre dal suo lavoro il tempo per essere felice, perché appagato dal lavoro stesso e dall’ipotesi che sia utile a chi soffre.
Come conquistare la felicità da vecchi? La prima regola è adottare un atteggiamento che valorizzi il qui e ora, senza pensare al futuro, ma cercando di dare il massimo e di ottenerne una ricompensa. In questo momento apprezzo quello che la vita mi dà, senza fare calcoli più o meno pessimisti sul futuro. È sempre imperscrutabile e chi da giovane o da vecchio vuole affidargli la sua vita rischia delusioni, fatiche inutili, le angosce dell’attesa. Felice è chi in un certo momento si affida a ciò che ha conquistato e che in quel momento riesce a considerare parte della propria vita. Certamente vi sono situazioni più o meno favorevoli; però la vecchiaia felice non è solo quella di chi cura i nipotini in una condizione idilliaca, ma quella che ciascuno vive in un certo momento… Anche senza nipotini. Così la felicità non è solo quella di chi va tutti i giorni al circolo a giocare a carte, né quella di chi coltiva un orto né quella del lettore accanito, ma è la storia di una normalità serena, senza angosce per il futuro. Nemica della felicità è la noia, l’incapacità di trovare un luogo nel quale appoggiare la testa; non è felice chi vaga senza una meta concreta o immaginaria, un luogo del riposo.
La vecchiaia è spesso accompagnata da malattie, da dolori pervasivi, che possono dare momenti di angoscia, indurre a pensare di rinunciare alla vita; la medicina non è sempre in grado di offrire indicazioni di felicità (non è peraltro il suo compito, perché si deve limitare ad eliminare gli ostacoli che si frappongono ad una ricerca che è solo umana).
Infine, una considerazione importante. Per chi ha la fortuna di credere, la religione aiuta la costruzione di tempi felici; però è una condizione che non deve chiudersi alla felicità degli altri, perché il messaggio cristiano è prima di tutto garanzia che la mia felicità, un dono della fede, deve essere donata anche alle donne e agli uomini che non l’hanno.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulle demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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