Ve lo ricordate? Sul numero scorso vi avevo chiesto di rispondere, anche voi, alla domanda con cui avevo concluso un incontro – dal vivo – sul mio ultimo romanzo. La domanda era: che cosa vi fa più paura quando pensate alla vecchiaia? Avete risposto in pochi. Strano, perché in genere siete molto attivi, cioè interattivi. Domanda scomoda?
Fra i pochi che hanno risposto, c’erano due negazionisti: due uomini. Uno ha scritto: «Io ho 78 anni e non ho paura della vecchiaia perché la vecchiaia non esiste». Un altro, che non specificava la sua età, è andato più a fondo sul tema, vi copio qui le sue parole: «Mio padre è morto che aveva quasi tutti i suoi denti in bocca, i suoi, non quelli del dentista, ti alzava da terra un vaso pieno di terra che te non lo spostavi neanche coi piedi, mio padre era capace di mangiare 12 uova sode per sfidare un altro del paese e a ottant’anni andava ancora a ballare la domenica. Non è mai stato vecchio mio padre. Una mattina non si è svegliato e basta, aveva 101 anni e otto mesi. Io sono come lui. Vecchi ci si nasce e ci si resta. Mio padre è nato giovane e ci è rimasto. E io sono come lui». Come è rassicurante potersi specchiare nelle vecchiaie belle dei nostri genitori! Io non ho avuto questa fortuna. Mia madre è morta che aveva ottant’anni o poco più. Dopo mesi e mesi di tribolazioni, il Parkinson, la depressione… Mio padre è morto novantatreenne, dopo anni in cui non era più del tutto presente a se stesso. Ripeteva spesso una frase: «Invecchiate, invecchiate gente… e poi ridete se potete». Era stato, per tutta la vita, un uomo spiritoso, capace di canticchiare rime inventate da lui e di prenderti in giro senza cattiveria.
Verso la fine la cifosi l’aveva rimpicciolito e non aveva più voglia di discutere con me sull’esistenza di Dio o della sostanziale bestialità della natura umana… Ecco che cosa mi fa paura della vecchiaia: perdere la voglia di scambiarsi opinioni, di ascoltare gli altri, di sostenere le proprie tesi. Mi fa paura perdere il desiderio, l’impulso di progettare. Non c’è una tecnica di prevenzione, né una cura, nessuno riesce a non invecchiare se escludi quelli che muoiono giovani. Tutto ciò che è vivo è soggetto a usura, gli oggetti durano più di noi: un umile vaso da notte, se è stato costruito comprato e utilizzato nel 1725 è antiquariato, puoi trovarlo alle aste di Sotheby’s e pagarlo migliaia di euro, puoi esporlo in salotto, invece di nasconderlo sotto il letto, come ai tempi in cui conteneva deiezioni umane. Sulle cose il tempo si spalma come una patina pregiata. Sulle persone no. Ma, come scrive Ebe di anni 83: «Non bisogna pensare alla vecchiaia, se no si diventa tristi». Giusto: avete mai visto un bambino che pensa all’infanzia? La fretta di crescere è la sola forza motrice, l’unica passione che lo accende. Dovremmo imitarli, i bambini. E buttarci in ogni giornata con la voglia di imparare qualcosa, la curiosità per le 16 ore di veglia che si stendono davanti a noi. E la pretesa di essere felici.
Concludo con la lettera più bella, che non è arrivata a questo giornale, indirizzata alla mia pagina, ma me l’ha scritta anni fa quello che è stato un grande psicoanalista. Io avevo una trentina d’anni, e già pensavo alla decrepitezza come a qualcosa di incombente, lui ne aveva quasi settanta e mi scriveva: «Tu hai paura della vecchiaia perché quando eri molto molto piccola hai vissuto l’angoscia dell’impotenza. Il cucciolo dell’uomo, anzi della donna, nasce troppo lontano da una forma anche minima di autonomia. È in tutto dipendente dai grandi che si occupano di lui/lei. Se qualcosa non funziona nell’affidarsi alla mamma ecco che l’ansia diventa insopportabile. È di questo che hai paura, con tutto il tuo delirante anticipo, di tornare ad essere dipendente, come all’inizio della vita. E che non ci sia nessuno che si occupi di te».
Ecco: i neonati non sono autonomi, ma sono carini. E la maggior parte delle persone li ama. Quando non sei più autonoma, ma sei vecchia con la pelle secca e gli occhi che non vedono bene, ci sarà qualcuno disposto ad aiutarti? Sarai abbastanza amabile?
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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