A più di un anno dall’inizio dell’emergenza pandemica in Italia, non siamo ancora in grado di tirare una riga definitiva sul conto totale del COVID-19 e sulle sue conseguenze in termini di costi umani, sociali ed economici. Tuttavia, da sempre, un dato molto significativo sia per l’andamento economico sia per la tenuta sociale è rappresentato dal tasso di occupazione e di partecipazione al lavoro. Secondo gli ultimi dati Istat, l’occupazione in Italia – nonostante il blocco dei licenziamenti – alla fine del 2020 è tornata a diminuire. Questo fenomeno colpisce trasversalmente le fasce più giovani della popolazione, risparmiando i “50&Più” ed evidenziando così che la fragilità fisica rispetto al Covid ha avuto un contraltare nella resilienza in termini socio-economici della generazione più anziana.
D’altro canto, tornando ai dati sull’occupazione, appare sconcertante la proporzione di genere: su 101mila unità di lavoro in meno, 99mila sono donne. Le spiegazioni sono certamente molteplici, ma una sulle altre fa riflettere e si riferisce al tema della conciliazione tra famiglia e lavoro, che è una ferita aperta che rischia di penalizzare la stessa capacità di ripresa del Paese.
E dai dati conviene partire. Viene definita “caregiver” quella figura nell’ambito familiare sulla quale grava la responsabilità pratica e prevalente di “cura” della famiglia e di assistenza nei confronti di genitori anziani e figli. Nel nostro Paese, nell’85% dei casi, i caregiver sono donne, con un’età media pari a 57 anni. Fino al mese di febbraio 2020, due caregiver su tre lavoravano, ma l’accresciuta necessità di attenzione degli elementi fragili ha reso, in tantissimi casi, incompatibile il doppio carico.
Dalla scorsa primavera, una su quattro delle caregiver lavoratrici ha infatti ridotto le proprie ore di lavoro, altrettante hanno temporaneamente sospeso l’attività lavorativa e il 6% l’ha persa in via definitiva. E, quando si rinuncia al lavoro, si genera un impoverimento non solo economico, ma anche esistenziale (in termini di indipendenza) e sociale (in termini di relazioni), con un depauperamento complessivo del sistema economico.
Il lavoro in proprio, che assorbe quasi il 70% dell’autoimprenditorialità femminile, rappresenta una coraggiosa alternativa nella ricerca di conciliazione vita e lavoro. Tuttavia dopo anni in cui le imprese femminili segnavano crescite superiori alle imprese maschili, tra aprile e settembre questa maggiore velocità si è annullata e il crollo delle imprese femminili è stato di 7 punti superiore a quelle maschili.
Nei momenti di difficoltà, emerge la verità. E la verità è che la componente femminile dell’occupazione e dell’impresa italiana è ancora oggi, a dispetto delle enormi potenzialità, più fragile, e tutto il nostro Paese, se vuole crescere e lo vuole fare in modo sano, se ne deve prendere responsabilmente carico o, ancora meglio, cura.
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