Assistere un proprio caro non autosufficiente può diventare un’esperienza faticosa e frustrante, soprattutto in caso di demenze. Talvolta, però, basta un sorriso per dare un senso a tutto il servizio prestato.
Molte famiglie italiane sperimentano le difficoltà e il peso di assistere un congiunto anziano, non più autosufficiente, bisognoso di cure e di attenzioni complesse. Spesso l’assistenza diventa una sorta di prigione per chi la presta, perché richiede un impegno senza sosta per molte ore al giorno, un susseguirsi di sforzi anche fisici, la sensazione di essere chiusi in una gabbia dalla quale non si riesce ad uscire. A questo sentire, già così impegnativo, talvolta si aggiunge l’impressione di impotenza, perché non si riesce a modificare significativamente l’evoluzione della malattia del proprio caro, un senso di colpa per il sentimento soggettivo e “sotterraneo” di rifiuto che talvolta pervade chi assiste, la difficoltà di avere un rapporto con l’ammalato, spesso colpito da deficit cognitivi che rendono difficile uno scambio verbale, l’abbandono di fatto da parte dei parenti e dei conoscenti, per cui si instaura una sensazione dolorosa di solitudine.
La condizione dolorosa sopradescritta talvolta raggiunge livelli così elevati da impedire alla naturale generosità, che è alla base dell’impegno di servizio, di esprimersi appieno, per cui prevalgono sentimenti di fallimento, il desiderio di interrompere l’impegno assistenziale, talvolta un senso di aggressività verso l’ammalato e le persone di famiglia che non intervengono fornendo il necessario supporto sul piano concreto e su quello psicologico. La domanda cruciale che ci si deve porre in queste circostanze è se e come sia possibile mettere in atto comportamenti che permettano il ritorno ad una situazione di quasi normalità, ricostruendo un rapporto appagante con il proprio caro ammalato. In questa luce si deve considerare senza angoscia l’eventualità che la realtà impedisca la continuazione del lavoro di cura e quindi diventi necessario il ricovero in una residenza per anziani. Non è facile un percorso di recupero, ma va sempre tentato, per evitare che si accrescano la fatica e il dolore, con il prevalere dei sentimenti negativi sopradescritti, che si riflettono sia su chi dona sia su chi riceve la cura.
Prima di tutto la persona che assiste deve essere profondamente convinta che compie l’atto di cura senza limiti di tempo per scelta propria e non perché costretta da un insieme di circostanze opprimenti sul piano sociale, che obbligano a svolgere una certa funzione. Questo sentimento d’amore deve essere coltivato e rinnovato continuamente. Talvolta è facilitato dalle reazioni dell’assistito, che non smette di esprimere gratitudine con le parole, quando possibile. Ma, in alcune occasioni, basta un sorriso per provocare una reazione di affetto, che riempie un’intera giornata. A questo proposito si deve ricordare che, secondo numerosi studi, il sentimento più disturbante per chi dona le cure è l’apatia dell’ammalato, condizione che talvolta compare come uno dei disturbi comportamentali che caratterizzano le demenze. Sempre in ambito clinico, sono particolarmente disturbanti per chi assiste atteggiamenti come l’aggressività immotivata, il mancato riconoscimento, l’accusa di furto. È difficile superare la sensazione di desolazione provocata da simili manifestazioni; sono particolarmente utili in queste circostanze gli scambi di informazioni tra persone coinvolte nelle cure, come avviene nei gruppi di mutuo aiuto, ad esempio nei Caffè Alzheimer.
Un secondo aspetto, importante perché la cura dei propri cari possa essere prestata senza rovinare gli “anni possibili”, riguarda la programmazione dei supporti. È necessario prevedere il tempo massimo di servizio, oltre il quale la stanchezza fisica e psicologica rischia di inquinare la giornata, ma soprattutto riduce la “ricchezza positiva” del rapporto di cura. La previsione delle esigenze di aiuto deve essere fatta con generosità verso se stessi e quindi senza risparmi eccessivi, anche per quanto riguarda il salario di una persona di supporto. È importante che chi sostituisce il parente per qualche ora, soprattutto di notte, sia persona di fiducia. In ogni modo è necessario concedere autonomia all’intervento della persona che viene assunta; se questa è sottoposta a controlli continui, la conclusione sarà una continua tensione che porta alla fine del rapporto e all’aumento dello stress.
Se si mettono in atto questi accorgimenti sul piano psicologico e pratico, l’impegno nel lavoro di cura diviene un tempo gratificante della vita, a qualsiasi età. Può esserlo anche per una persona anziana, perché la cura, se prestata con generosità, intelligenza e con le opportune prudenze, induce rilevanti vantaggi su chi la dona. È quindi un modo che rende “possibili” gli anni anche in età avanzata: la generosità è sempre un elisir di lunga vita!
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulle demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
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