Lucia, 70 anni, uccisa dal marito che si toglie la vita; Eleonora, 85 anni, uccisa dal figlio, che ha confessato l’omicidio; Chiara, 16 anni, uccisa dall’amico coetaneo; Maria, 78 anni, uccisa in una casa di riposo dal marito di 87 anni; Saman, il fratello conferma: “È stata uccisa dalla nostra famiglia”. L’orrore si sussegue giorno dopo giorno attraverso i titoli dei giornali, che snocciolano sintesi di esistenze stroncate dalla violenza di chi crede che la vita di una donna (moglie, madre o figlia che sia) gli appartenga. Non c’è età che possa mettere al riparo dalla tragedia, non esiste ceto sociale, luogo d’origine o titolo di studio che possa salvare la vita. Perché il femminicidio è trasversale, trasversale come l’amore, eppure dell’amore non ha nulla: perché l’amore regala e non priva, protegge e non uccide.
Il termine femminicidio è stato introdotto per la prima volta dalla criminologa femminista Diana H. Russell, nel 1992, per indicare uccisioni di donne, da parte degli uomini, solo perché donne. Una violenza fisica, economica e psicologica, che spesso si manifesta con un crescendo di parole e gesti: un’offesa, una spinta, uno schiaffo, calci e pugni, e poi la fine annunciata, che le vittime non riescono ad eludere. Il femminicidio ha radici lontane che affondano in secoli di patriarcato, che la crescita di una coscienza femminile è riuscita appena a scalfire. Ma rompere la spirale della violenza di genere si può e si deve; per farlo, però, è necessario sviluppare e diffondere – ad ogni livello della società – una “cultura del rispetto” che sia in grado di abbattere giustificazioni e stereotipi che alimentano la violenza stessa. Una cultura che permetta ai bambini di oggi di diventare donne e uomini di domani, in un mondo che non conosca il binomio “vittima e carnefice”.
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