Tiziano Croci.
Vive a Milano. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta.
Arrivo in orario a Tel Aviv e nonostante siano ormai le tre del mattino non provo stanchezza. Le procedure di controllo alla dogana mi rendono nervoso, non vorrei fare né code, né rispondere alle solite domande: “Sei un terrorista? Trasporti armi o agenti patogeni? Sei affetto da malattie infettive?”. Mi chiedo se l’obbiettivo di tale procedura non sia l’identificazione di persone con squilibri emotivi di una certa gravità. Ovviamente mi rassegno pensando che presto incontrerò Alex e sua moglie che da più di un’ora mi stanno aspettando all’uscita dell’aerostazione. Lui lavora da circa sei mesi in alcuni villaggi palestinesi in Cisgiordania, gestisce un progetto idrico finanziato dalla Comunità Europea e abita in una casa sul monte Scopus, una delle colline che circondano Gerusalemme. Alex mi ospiterà per una decina di giorni durante la mia permanenza tra Israele e la Palestina.
Uscito finalmente dall’aeroporto, dopo i saluti, ci dirigiamo verso Gerusalemme senza incontrare traffico ma, poco prima di entrare in città, siamo costretti a fermarci ad un posto di blocco. Ormai è quasi mattino. La presenza di persone armate un po’ ovunque e i numerosi posti di blocco saranno un ricordo indelebile di questa vacanza. Terminato il controllo dei documenti possiamo proseguire fino a destinazione: un appartamento in una villa situata esattamente a metà tra la zona araba e quella israeliana. Queste due zone stavano per essere divise da un muro di cemento, alto otto metri, ancora in costruzione con alcuni passaggi controllati dai militari. La casa sorge in prossimità dei resti di un uliveto che solo parzialmente ricopre le pendici della collina ed è, come tutto il terreno intorno, di proprietà di un palestinese. Secondo i militari la costruzione del muro è prioritaria per la sicurezza di Israele ma il suo tracciato in questo caso non tiene conto della proprietà del poveretto, che così smembrata diventa solo parzialmente fruibile. Durante gli scavi per la costruzione del muro le ruspe, non solo hanno distrutto l’uliveto, ma hanno privato la casa del sistema di riscaldamento. L’atmosfera è irreale e il freddo molto intenso nonostante l’inverno in questi luoghi sia generalmente mite. La stanchezza prende alla fine il sopravvento e, con la ferma intenzione di recuperare almeno un calorifero elettrico il giorno successivo, mi addormento sotto la montagna di coperte fornitami dalla moglie di Alex. Mi sveglio a metà mattina per la forte luce che filtra attraverso gli scuri della finestra. La posizione è ottimale e mi permette di controllare un intorno molto ampio. I soldati stazionano proprio sotto la mia finestra. Scatto così qualche foto, anche se ho paura di essere scoperto. Noto che il giardino della villa, diviso in due dal muro ancora in costruzione e circondato da filo spinato, è essenzialmente terra di nessuno. Attraverso i varchi controllati dai militari durante il giorno passano i palestinesi autorizzati ad entrare in Israele, mentre poco più in là le persone senza permesso tentano di scavalcare un basso reticolato sotto lo sguardo di soldati solo apparentemente indifferenti: sono donne e bambini ma quasi mai uomini. I bambini mantengono una maggior libertà di movimento tra le due zone. Persone probabilmente separate dalla divisione cercano appena possibile di sfuggire ai controlli per potersi incontrare. Una volta terminato il muro resterà un solo passaggio obbligato e la processione di “clandestini” non sarà più possibile. A volte i soldati sono tolleranti e non intervengono, mentre altre volte maltrattano, respingendo col calcio del fucile i malcapitati nonostante le spiegazioni o le proteste. L’atteggiamento dei militari varia di giorno in giorno, da soldato a soldato e probabilmente è in qualche modo connesso ad eventi lontani a noi sconosciuti. Forse un atto terroristico avvenuto in un’altra città rende i soldati più attenti e insofferenti.
Non rinuncio però allo scaldino e il mattino successivo dopo un’abbondante colazione facciamo un salto in città dove, in un grande magazzino acquisto un termoventilatore a tre velocità. Nel pomeriggio, partiamo con il fuoristrada verso Hebron, ma non senza aver verificato su internet l’apertura o meno degli accessi alla città, ovviamente tutti controllati dai militari. Lungo la strada passiamo nei pressi di una colonia israeliana circondata da un alto filo spinato. A destra in lontananza si intravede il muro che circonda Hebron. Finalmente dopo una lunga attesa ed estenuanti controlli passiamo il posto di blocco mescolandoci al traffico commerciale.
Una guida palestinese ci attende nell’ufficio di Alex, una ragazza di nome Rania che frequenta l’università e parla un inglese discreto. Rania non porta il velo e ha occhi bellissimi come solo le donne arabe a volte hanno, vive in un villaggio non lontano da Hebron e appartiene ad una famiglia numerosa il cui principale sostentamento è la pensione di guerra del padre: fermato ad un posto di blocco durante la guerra del Kippur si era ribellato ai controlli dei militari ed era stato brutalmente percosso. Ricoverato in fin di vita era sopravvissuto, ma era rimasto zoppo e quasi completamente cieco.
Stiamo per uscire dall’ufficio, quando una folla urlante appare dal fondo della strada dirigendosi verso di noi. Ritorniamo sui nostri passi e osserviamo dalla finestra gli avvenimenti. La folla è essenzialmente composta da bambini di tutte le età che portano bandiere con scritte in arabo, fucili di legno ed inneggiano ad Hamas. Una pena e un dolore profondo mi sommergono. Accompagnati da adulti, probabilmente insegnanti, esprimono un’aggressività a cui non sono abituato.
Appena possibile raggiungiamo il centro della città a piedi. Una grande confusione regna ovunque: macchine e motorini diffondono nuvole di fumo acre, rendono l’aria irrespirabile e continuamente rischiano di investire la folla, che indifferente compra frutta e verdura dalle bancarelle situate lungo le vie e intorno alla piazza principale, da cui nasce il suk vero e proprio e da lì dirama in diverse direzioni. Nel suk le bancarelle di frutta via via lasciano il posto alle botteghe con spezie colorate, formaggi, pentole e casalinghi d’ogni tipo, e poi tappeti, abiti e altre cianfrusaglie indescrivibili. Siamo gli unici turisti e alcuni venditori di spezie, molti di loro anziani, ci offrono la mercanzia in dono. La presenza di Rania che parla arabo ci rende ben accetti e li rende generosi nonostante la povertà. Mi colpisce il fatto che il budello, appena sopra le botteghe e per tutta la sua lunghezza, è sormontato da grate di metallo. Sopra di esse sono state gettate pietre e ogni altro genere di immondizia. Attraverso questo “soffitto” si intravvedono le pareti di case con finestre sbarrate. Rania, sollecitata dal mio sguardo che esprime curiosità, mi spiega che la grata separa la zona occupata dai coloni israeliani da quella palestinese. Le grate hanno funzione protettiva e l’immondizia viene gettata dai coloni dall’alto per irritare e provocare i palestinesi. Il centro di Hebron è in effetti un’enclave israeliana creata durante l’ultima guerra e mai smantellata completamente. I coloni si sono sempre rifiutati di restituire ai palestinesi questa parte della città e l’esercito dovrebbe in qualche modo proteggere entrambi, anche se in caso di conflitto non sono sicuro della sua imparzialità. In fondo al budello c’è un posto di blocco con i militari che controllano l’accesso all’enclave, alla moschea e alla sinagoga; queste ultime sono collocate in un unico edificio ovviamente separato da una parete. Visitiamo prima la moschea accolti con curiosità dall’Imam, sorpreso e felice di poter ospitare noi rari turisti. Con un inglese zoppicante ma con enfasi ed efficacia ci racconta di come un colono folle di odio fosse entrato anni prima in quel luogo sacro durante la preghiera serale e avesse massacrato molti dei presenti prima di essere bloccato. I segni lasciati dai proiettili appaiono come cicatrici profonde sulle pareti all’interno dell’edificio, ancora evidenti a distanza d’anni. Il Muezzin è muto, non ha voce perché non ha il permesso di annunciare che è ora della preghiera. Lasciata la moschea ci avviamo verso l’entrata della sinagoga, ma siamo fermati e interrogati dai soldati che vogliono sapere se siamo ebrei, mussulmani o cristiani. Non mi era mai capitato di dover dichiarare a quale religione appartengo. Ne sono rimasto sorpreso e confuso. Visto che non siamo ebrei e che è “Shabbah”, giorno di festa, ci intimano di allontanarci, poiché non abbiamo il diritto né di sostare, né di entrare in quel luogo. Rania inizia a discutere con i militari: vuole visitare alcune famiglie arabe ancora presenti nell’enclave. Più la discussione si protrae e più la tensione sale. Così i militari ci spintonano verso la parete di una casa. In quella posizione non possiamo tornare sui nostri passi. Non so cosa potrebbe succedere, a noi turisti un po’ particolari probabilmente niente, ma Rania sicuramente passerebbe guai seri. Cerco di tranquillizzare la ragazza e chiedo del comandante: spero proprio che ce ne sia uno. Finalmente appare come uscito dal nulla, ha comunque un aspetto rassicurante e sembra l’unico militare veramente adulto. Si informa immediatamente della situazione, dà qualche ordine incomprensibile e ci scorta esattamente verso il posto di blocco da cui eravamo entrati. Non ho avuto paura, ma le mie gambe sono felici di ripercorrere la strada a ritroso. Rania chiede di essere accompagnata al suo villaggio e non vuole denaro per averci fatto da guida, ma confida in noi per trovare un lavoro presso qualche ong che abbia progetti di cooperazione internazionale in Palestina.
La sera dopo cena mentre discutiamo degli avvenimenti della giornata con Alex, improvvisamente ci sorprendono il buio e un rumore assordante. Fuori la notte è cancellata dalla luce accecante delle alogene, mentre le ruspe hanno ripreso a scavare causando l’interruzione della fornitura d’energia elettrica alla casa. Lo scaldino a tre velocità diventa inutilizzabile e così passiamo ancora quella notte al freddo. Al mattino prendo una decisone: mi trasferisco in albergo come tutti i turisti che si rispettino. Dalla finestra della mia camera d’hotel nei pressi delle mura di Gerusalemme, si può chiaramente scorgere il muro, che senza soluzione di continuità, corre per chilometri e chilometri lungo le colline come un serpente infinito che fa capolino tra cielo e terra perdendosi all’orizzonte. A volte i muri che dividono vengono abbattuti ma nuovi muri sorgono più numerosi in altri luoghi.
Chiudo gli occhi e immagino di essere affacciato alla finestra di casa mia. Immagino all’esterno un muro enorme che divide la via in due. Immagino di non poter più andare al lavoro. Immagino che mio figlio non possa più incontrare i suoi amici e andare a scuola. Immagino altre e più terribili cose… e così apro gli occhi.