Dai racconti degli infermieri domiciliari che hanno vissuto l’emergenza sanitaria in prima linea, nasce un libro curato da due amiche e colleghe, Covid ergo sum. La pandemia racconta gli infermieri, di Cinzia Botter e Laura Binello.
Due mesi che hanno cambiato la vita di tutti, ma soprattutto di chi ha attraversato il dramma sanitario mondiale del Covid, compiendo una sfida quotidiana fatta di cure, incontri e conforto nelle case di chi ne aveva bisogno. Dall’esperienza di tanti infermieri che prestano assistenza domiciliare nasce Covid ergo sum, la pandemia racconta gli infermieri, un libro scritto a quattro mani che rappresenta un pezzo di memoria di un vissuto collettivo che non va dimenticato, ma raccontato.
«Credo sia importante, dopo tutti i dati di questi mesi, restituire le storie degli infermieri ma anche dei malati e dei loro parenti – racconta a 50&Più Cinzia Botter, coautrice insieme a Laura Binello -, e questo non è un libro scritto solo da noi, ma dai nostri colleghi che ci hanno inondato di storie, di racconti, anche solo di messaggi WhatsApp, di audio registrati».
Quando è nata l’idea di farne un libro?
Ci siamo trovati in piena emergenza Covid ai primi di marzo, e nel giro di una settimana la situazione era già diventata drammatica. La mia preoccupazione da responsabile era quella di mettere in sicurezza tutte le mie colleghe che ogni giorno lavoravano a domicilio dai nostri anziani, ma anche da pazienti giovani e addirittura bambini, perché abbiamo anche un’équipe pediatrica. In un attimo sono saltati tutti i modelli organizzativi, e passavo giorni e notti a cercare Dpi (dispositivi di protezione individuale) per loro che passavano da una casa all’altra e non dovevano diventare vettori di contaminazione per gli assistiti, oltre che salvaguardare la loro salute. In tutto questo marasma mi sono detta che dovevo lasciare una traccia di quanto stavamo vivendo, e che la nostra storia avremmo dovuto raccontarla noi, infermieri del territorio, non farla raccontare da altri. Una sera, mentre ero in auto per rientrare a casa, mi chiama la mia amica e collega Laura Binello, e insieme cominciamo davvero a pensare a come mettere insieme tutte le suggestioni che ci arrivavano. Così l’indomani ho scritto una mail a tutte le colleghe dell’azienda, lanciando un appello a chiunque avesse voglia di scrivere un pensiero o un testo più strutturato, per raccontare le proprie emozioni o, magari, la storia di qualche paziente.
Come avete deciso di comporre il testo?
Abbiamo raccolto questi pensieri e racconti che ci arrivavano e gli abbiamo dato un filo logico, partendo da Bergamo, dove tutto è cominciato – anche se le prime notizie arrivavano da Codogno -, per creare un collegamento con Asti; poi abbiamo anche inglobato storie che ci sono giunte dalla Liguria e dalla Puglia. Il filo conduttore è il racconto che ci scambiamo io e Laura attraverso le storie, poi Laura in particolare ha dato il taglio narrativo, anche con ironia, perché ci sono pure storie di cura finite bene, anche se questo presente ci ha catapultati in un’esperienza dove si è vista tutta la fragilità dell’essere umano. Comunque, in sessanta giorni abbiamo dato vita ad un libro.
Avete deciso di lanciare la pubblicazione con un crowdfunding.
Laura aveva già una precedente esperienza di crowdfunding con Bookabook, così ha mandato il manoscritto, che è piaciuto, e abbiamo aperto alle prenotazioni delle copie.
Il ricavato delle vendite andrà a finanziare un progetto formativo per giovani infermieri che hanno voglia di aumentare le proprie competenze con laboratori didattici.
Cosa porta con lei di questa esperienza?
L’essere stata testimone, ed esserlo tuttora, di una tragedia. Tutto quello che è successo a Bergamo e provincia, in particolare in Val Seriana, a Nembro, Alzano, Clusone, Albino, ci ha lasciato la sensazione di essere stati lasciati soli, anche perché tutta l’attenzione era sugli ospedali che stavano implodendo e si stavano trasformando. Se il territorio avesse avuto più infermieri di comunità già strutturati, avremmo potuto fare molto di più. Io e i miei colleghi abbiamo un’idea della cura di prossimità, che significa spogliarsi di qualunque divisa e instaurare un rapporto di fiducia, prendersi in carico non solo il paziente ma tutta la famiglia, sempre chiedendo prima il permesso di entrare in casa, ossia nella sfera più privata di una persona. Ascoltando le persone e cercando di coglierne i bisogni anche in quello che non viene detto.
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