Dal 1° febbraio al 6 aprile scorso i decessi nelle Rsa, le Residenze Sanitarie Assistenziali, sono stati 3.859: l’8.4% dei 44.457 ospiti censiti. Ovviamente nel calcolo del tasso di mortalità sono stati compresi i nuovi ingressi dal 1° marzo.
È quanto emerge da un’indagine nazionale sul contagio da Covid-19 realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
C’è comunque da dire che si tratta di una fotografia parziale della situazione. Perché, su un totale di 4.629 Rsa in Italia, di cui 2.166 contattate dall’Iss, solo 577 hanno risposto alle domande. È appena il 24% sul totale delle strutture nel Paese.
Allo stato attuale dei dati, la percentuale di decessi più alta pare essere nelle strutture della Lombardia: è del 47.2%, con un tasso di mortalità risultato più che doppio rispetto alla media nazionale (6,8% contro il 3,1%). Sembra invece essersi attestata al 19.7% la percentuale di decessi in Veneto.
A livello nazionale, dei 3.859 soggetti deceduti, 133 sono risultati positivi al tampone e 1.310 avevano sintomi simil-influenzali. Il 37.4% dei morti presentava sintomi da Covid-19.
Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, le Rsa «sono strutture importanti e fragili nella dinamica di questa epidemia. Oltre alle misure in essere è molto importante adottare una speciale attenzione nella prevenzione e controllo».
Ma sorge qualche dubbio in proposito se si considera la lista delle carenze fatte rilevare dalle strutture. Sempre secondo l’Iss, infatti, a livello nazionale nell’85.9% dei casi si riporta la mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale (guanti e mascherine). Nel 17.7% si lamentano le poche informazioni ricevute sulle procedure per contenere l’infezione. Inoltre, nell’11.9% risulta carenza di farmaci, nel 35.1% assenza di personale sanitario e nell’11.3% difficoltà nel trasferire i residenti con Covid-19 in strutture ospedaliere.
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