Lo sappiamo per certo: a seguire le trasmissioni televisive, ad ascoltare le notizie alla radio e a leggere gli articoli dei giornali sono soprattutto loro, gli anziani. E quindi viene lecito domandarsi: dopo mesi di informazioni frenetiche sull’epidemia del nuovo coronavirus, qualcuno si è interrogato sull’effetto che i toni e i termini usati nella comunicazione hanno sui principali destinatari del messaggio?
Noi lo abbiamo fatto chiedendo alla dottoressa Fortunata Pizzoferro, vicepresidente dell’Ordine delle psicologhe e degli psicologi del Veneto, di raccontarci l’impatto psicologico che ha sugli anziani questa incessante cronaca del contagio, di cui loro sono spesso i principali protagonisti.
Certamente a nessuna persona over 65 farà piacere sentir ripetere, come se potesse essere di qualche conforto, che “i decessi riguardano per lo più persone anziane”. La ferita è doppia: gli anziani si sentono i più colpiti dalla malattia ma i meno considerati dalla società.
Dalla mattina alla sera non si parla d’altro. Come reagiscono le persone anziane alla marea di informazioni che ricevono, sapendo di essere particolarmente esposti ai rischi della malattia?
Molto dipende dal tipo di informazione che viene data. È assolutamente normale provare paura di fronte a qualcosa di nuovo, di inaspettato, di cui non si conosce l’evoluzione. Ma se la comunicazione è confusa e i toni sono altalenanti passando con troppa disinvoltura dall’allarme alla rassicurazione, si genera incertezza. Il messaggio perde di credibilità e allora la paura si può trasformare in panico.
Che caratteristiche dovrebbe avere l’informazione per svolgere un ruolo “anti-panico”?
Meglio poche informazioni, ma chiare, piuttosto che tante e discordanti. Bisogna fare in modo che tutti i messaggi vengano compresi a fondo perché la comprensione favorisce l’adozione delle strategie di coping come i corretti comportamenti protettivi, lavarsi le mani spesso o evitare i posti sovraffollati. Senza esagerare però, perché l’iper-protezione potrebbe essere controproducente.
In che senso?
Ecco: se la normale paura cedesse il posto al panico, l’anziano potrebbe tendere a isolarsi in casa. E finire a ritrovarsi davanti alla televisione tutto il giorno ascoltando notizie allarmanti che non fanno altro che alimentare le preoccupazioni. È invece opportuno continuare a mantenersi attivi, fare le passeggiate all’aria aperta ed esporsi al sole, per potenziare il sistema immunitario e poter contare su difese efficaci nello sventurato caso in cui ci si dovesse ammalare. Anche la socialità è importante. E si possono continuare ad avere contatti con gli amici, pochi ma buoni. Oppure si può ricorrere ai social media per conversare a distanza. È fondamentale mantenere uno stile di vita attivo e sano.
Veniamo al linguaggio utilizzato dai media. Spesso abbiamo sentito affermare con toni quasi rassicuranti che “le vittime erano tutte persone anziane”. Come se la vita di un anziano valesse di meno…
Qui tocchiamo un tasto dolente che però rientra in una problematica più ampia: la scarsa scarsa attenzione al linguaggio che colpisce a rotazione diverse categorie sociali, come le donne, le persone in sovrappeso, ecc… Si usano con superficialità termini che possono ferire chi ascolta, senza mettersi nei panni delle persone di cui si sta parlando. In questo caso lo si sta facendo con gli anziani. Dimenticandosi che per l’anziano la propria vita ha ovviamente valore. È il punto di vista soggettivo che fa testo: non è affatto detto che una persona in là con gli anni smetta di trovare la vita degna di essere vissuta. La sua è l’unica prospettiva che deve essere presa in considerazione.
Che consiglio darebbe a chi fa informazione?
Di calibrare il messaggio rispetto alla persona che ascolta. Sincerandosi che possa capire il messaggio in modo tale da sapere esattamente cosa fare.
Che consiglio darebbe invece alle persone anziane spaventate dal nuovo coronavirus?
Di continuare a prendersi cura di sé, mantenendo uno stile di vita sano, coltivando i propri interessi, facendo attività fisica, e tenendo attivo il cervello. La vecchiaia di per sé non è una malattia.
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