«Le ostilità in Ucraina, nel momento in cui scrivo, non stanno risparmiando nessuno; soprattutto donne, anziani e bambini sono costretti a viaggi estenuanti e pericolosi per abbandonare il Paese. Qui riporto le voci che ho raccolto a Leopoli, di coloro che rimangono e danno una mano»
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, lo scorso 24 febbraio, è cominciata la fuga dei civili dalle città sottoposte ai bombardamenti, compresa la capitale Kiev. Decine di migliaia di persone al giorno si muovono in auto, in treno, in autobus e persino a piedi verso il confine occidentale, dove Polonia, Romania, Ungheria, Moldavia e Slovacchia hanno aperto le frontiere per accoglierli. Si tratta soprattutto di donne, bambini e anziani.
Città come Rzeszów, capoluogo della regione polacca della Precarpazia, hanno organizzato un sistema di accoglienza e di aiuto per registrare e fornire la prima assistenza agli ucraini in transito verso le altre grandi città del Paese o l’estero. Al valico di Medyka sono stati allestiti dei gazebo con cibo, bevande calde, una postazione medica, e molti cittadini si offrono di dare un passaggio a coloro che non trovano parenti o amici ad attenderli dall’altro lato della frontiera, per accompagnarli alla stazione ferroviaria e da lì poter proseguire il viaggio. Si tratta di percorsi estenuanti, che possono durare anche tre o quattro giorni per tratte che non superano i 600 km in Ucraina, e che poi continuano in Europa.
L’organizzazione degli aiuti, però, non arriva solo dai Paesi europei, perché nella parte occidentale del Paese si è creata una rete di persone e associazioni che mette in connessione i civili in fuga, i soldati al fronte, gli ucraini della diaspora, con l’obiettivo di dare una mano, ognuno per le proprie capacità e possibilità.
Lviv, o Leopoli, settanta chilometri dal confine polacco, è diventata il primo luogo di transito per chi scappa, e il più grande centro di raccolta e smistamento di quanto arriva dall’estero e dagli stessi cittadini che, ogni giorno, si ritrovano a mettere insieme viveri, indumenti, prodotti per l’igiene, medicinali per chi non ha più nulla e ha portato con sé solo l’indispensabile, materiali per il primo soccorso ai soldati. E proprio per la sua importanza strategica, rischia di diventare un’altra zona a rischio, come già successo nella notte fra il 13 e il 14 marzo, quando la base di addestramento di Yavoriv, lungo la strada che da Leopoli porta al confine, è stata bersagliata da almeno trenta missili.
«Questo posto prima era uno spazio espositivo – spiega Yurii, uno dei volontari – e oggi è stato trasformato in un grande magazzino dove confluisce quanto viene raccolto da privati e associazioni. Nel piano seminterrato teniamo le medicine, al piano terra organizziamo la distribuzione dei pasti caldi, al primo piano impacchettiamo vestiti, coperte e poi organizziamo i tir per trasportare tutto dove serve».
Nella sala cinema le poltrone sono state ricoperte di indumenti da smistare, e una ventina di donne e ragazze sono impegnate a selezionarli e piegarli già divisi per taglia e tipologia, mentre altri giovani hanno creato una sorta di catena di montaggio posizionandosi ognuno su un gradino delle due rampe di scale e passandosi i pacchi da uno all’altro. All’ingresso, invece, si registrano i nuovi arrivi di materiale, mentre fuori i cittadini di Lviv fanno la fila per poter donare.
«La città è cambiata molto con la guerra, ovviamente – racconta Alexandra, avvocato e socia di uno studio legale -, c’è chi se n’è andato, anche se al momento la situazione non è allarmante come in altri luoghi del Paese, e chi ha riadattato il suo lavoro abituale per rendersi utile agli altri. Abbiamo perso la nostra vita normale anche nelle piccole cose, ma cerchiamo di resistere e soprattutto di fare qualcosa per chi sta peggio».
Lei ha ripreso in mano la macchina da cucire per realizzare dei tourniquet artigianali, perché al fronte non bastano mai: una lunga striscia di tessuto resistente ed un bastoncino di legno da avvitare per bloccare le emorragie in caso di ferite. «Abbiamo troppo tempo libero adesso – spiega – ma nessuno ha voglia di pensare e quindi è meglio tenersi sempre impegnati».
Alle dieci di sera scatta il coprifuoco, a Lviv, ma durante il giorno ci sono caffè, ristoranti e negozi che restano chiusi. E anche il traffico non è quello di sempre. In più, a scandire il tempo, capita sempre più spesso che arrivino le sirene dell’allarme antiaereo. «Molti hanno paura di uscire – dice Vasil, titolare di un locale che fino ad oggi serviva a pranzo e a cena. Anche le cameriere che lavorano qui hanno deciso di restare a casa per un po’. E nel frattempo ci siamo messi a cucinare per donare i pasti ai profughi, è l’unica cosa che sappiamo fare bene, e se non ci sono clienti che vengono qui andiamo noi da chi ha bisogno».
L’unico posto qui dove si concentrano migliaia di persone è la stazione ferroviaria, con il lungo viale Cernivetska che porta direttamente all’ingresso principale e che è percorso incessantemente da chi è appena arrivato in città e da chi cerca un treno per proseguire e lasciare il Paese.
Da un lato e dall’altro alcuni piccoli e grandi fast food vengono presi d’assalto, mentre sul piazzale si accendono dei falò per combattere il freddo. All’interno, la sala d’attesa è diventata un luogo di sosta a lungo termine, dove trovare riparo mentre si aspetta il treno, dato che gli orari che si leggono sui tabelloni sono ormai un ricordo. Perché le destinazioni sono ancora garantite, ma i tempi non si possono più calcolare perché l’intero sistema ferroviario è completamente sotto pressione e quasi al collasso. Soprattutto per i treni che da Lviv vanno verso Przemysl, in Polonia, si resta in coda per ore, ma anche nei collegamenti fra città ucraine i tempi di attesa sono enormi, a causa dell’altissimo numero di persone che cerca di partire. Secondo i dati dell’Unchr, aggiornati al 15 marzo, sono già quasi tre milioni gli ucraini che hanno lasciato il Paese. I viaggi sono gratuiti ma riuscire a prendere posto non è mai scontato, e i vagoni sono carichi ben oltre la capienza, bagagli e animali domestici compresi, perché moltissime famiglie si ritrovano a viaggiare con il cane, il gatto, persino la cavia o i pappagallini.
«Abbiamo resistito finché ci sono state le condizioni – spiega Irina, che viaggia con la figlia quindicenne e il cane -, poi siamo rimaste isolate nella parte est della città, con il ponte danneggiato, e abbiamo trascorso giorni nello scantinato del nostro palazzo, col cibo razionato, la corrente elettrica a singhiozzo. Ci è voluto qualche giorno per abituarmi all’idea ma poi ho deciso di fare questo passo. Mio marito è dovuto restare a Kiev perché in questo momento, con la legge marziale, agli uomini fino ai sessant’anni non è consentito uscire dall’Ucraina».
Loro sono dirette a Varsavia, mentre Anja attraverserà il confine polacco per poi spostarsi in Austria, dove ha degli amici che possono ospitarla. Anche lei è in transito da Kiev. «Dalla capitale non potevo più fare nulla, né per me né per gli altri, mentre dall’estero potrò coordinare gli aiuti ai miei concittadini che vogliono lasciare il Paese e dargli tutte le informazioni e gli strumenti necessari. Ora che sono al sicuro posso lavorare per questo».
Intanto a Lviv comincia a nevicare. È normale in questa stagione, dicono qui, anzi, negli ultimi anni il clima è cambiato, prima la temperatura scendeva anche di venti gradi sotto lo zero, mentre adesso non succede più. Nessuno ci fa caso in questo momento, perché le priorità sono cambiate e la vita di tutti è sconvolta.
«Abbiamo avuto due anni di pandemia e pensavamo che fosse quanto di peggio ci potesse capitare» – scherza Dima, ex tour operator che grazie ai suoi contatti professionali è riuscito a far scappare da Kiev e Kharkiv 18 persone, tra familiari e amici. «Ci siamo mossi con cinque macchine per sedici ore di viaggio, e poi a Lviv ci siamo divisi. Io sono qui perché non ho intenzione di prendere le armi ma voglio aiutare il mio Paese cercando di diffondere le notizie di quanto sta accadendo e contrastare quanto possibile le fake news, attraverso la rete di contatti che ho creato anche all’estero in otto anni di attività. Purtroppo siamo andati oltre l’immaginazione, ma ci sono ancora persone che non credono a quanto sta succedendo. Un mio collega ha il papà in Russia, e quando prova a raccontargli questa guerra viene accusato di fare propaganda. Succede anche questo. E se prima eravamo fermi per un virus, oggi ci spostiamo ma per scappare, noi che abbiamo sempre viaggiato e fatto viaggiare per il mondo per il piacere di conoscerlo, per regalarci bellezza. Speriamo di ritornare a farlo».
© Riproduzione riservata