Con il nuovo record minimo di nascita e i decessi provocati dalla pandemia nel 2020, l’Italia è in piena recessione demografica. Una situazione che ci riporta a quando, nel 1918, il Paese fu falcidiato dall’epidemia di spagnola. I dati del terzo Censimento Istat fotografano un Paese sempre più invecchiato, spopolato, diseguale.
L’Italia sempre più spopolata: al 31 dicembre 2020, la popolazione conta 59.236.213 residenti, in calo dello 0,7% rispetto al 2019 (-405.275 individui). Ad aggravare una dinamica già registrata da almeno un decennio nel Bel Paese, il nuovo record minimo delle nascite (405 mila). Sommato all’elevato numero di decessi (740 mila) causato dalla pandemia da Covid-19. Così, gli italiani invecchiano sempre più rapidamente, tanto che ogni bambino ha potenzialmente 5 nonni. Ai drammatici effetti dei contagi nelle regioni e province del Nord fanno eco il Mezzogiorno e le Isole sempre meno abitati. Neppure i giovani stranieri riescono a frenare la recessione demografica, mentre si accentuano anche i divari di genere. Questi i tratti salienti della fotografia del Paese scattata nella terza edizione del Censimento permanente realizzato dall’Istat “Popolazione residente e dinamica demografica. Anno 2020”.
La pandemia ci ha riportato nel 1918
Per l’Istat non ci sono dubbi: la dinamica demografica è stata pesantemente influenzata dalla pandemia da Covid-19. Le ragioni della denatalità affondano certamente le proprie radici in tendenze che si riscontrano ormai da almeno un decennio in Italia: progressiva riduzione della popolazione in età feconda, posticipazione e clima di incertezza per il futuro. Ma il quadro demografico del nostro Paese ha subito un profondo cambiamento a causa dell’eccesso di decessi direttamente o indirettamente riferibili alla pandemia da Covid-19 e delle restrizioni alla mobilità, sia interna che internazionale.
Al nuovo record minimo delle nascite (405 mila) – segnala il Censimento Istat -, si somma l’elevato numero di decessi (740 mila) ad aggravare la dinamica naturale negativa che caratterizza il nostro Paese. “Il deficit di “sostituzione naturale” tra nati e morti (saldo naturale) nel 2020 raggiunge -335 mila unità. Un valore inferiore, dall’Unità d’Italia, solo a quello record del 1918 (-648 mila), quando l’epidemia di “spagnola” contribuì a determinare quasi la metà degli 1,3 milioni di decessi registrati in quell’anno”.
Il deficit di nascite rispetto ai decessi è tutto dovuto alla popolazione di cittadinanza italiana (-386 mila), mentre per la popolazione straniera il saldo naturale resta ampiamente positivo (+50.584). “Senza il contributo fornito dagli stranieri, che attenua il declino naturale della popolazione residente in Italia, si raggiungerebbero deficit di sostituzione ancora più drammatici” sottolinea l’Istituto Nazionale di Statistica.
Uno sguardo al 2021: la denatalità non accenna a diminuire
Anche i dati provvisori dei primi mesi del 2021 confermano che la denatalità non accenna a diminuire. Secondo i numeri provvisori diffusi il 14 dicembre scorso e riferiti al periodo gennaio-settembre 2021, le minori nascite sono già 12.500, quasi il doppio di quanto osservato nello stesso periodo del 2020. Il numero medio di figli per donna scende nel 2020 a 1,24 per il complesso delle residenti, da 1,44 negli anni 2008-2010, anni di massimo relativo della fecondità. Se si considerano solo le donne di cittadinanza italiana, il numero scende a 1,17. Il più basso di sempre, evidenzia l’Istat. In un anno sono nati 8mila primi figli in meno, mentre l’età media alla nascita del primo figlio avanza a 31,4 anni.
Il drammatico tributo del Nord Italia
Secondo i dati del Censimento Istat, le nascite calano in tutto il Paese, da Nord-ovest (-4,3%) e al Sud (-3,8%). Ma soprattutto “la perdita di popolazione del Nord appare in tutta la sua drammatica portata – evidenzia l’Istat – in quanto totalmente ascrivibile alla dinamica demografica negativa (forte eccesso di decessi sulle nascite e contrazione del saldo migratorio), parzialmente mitigata nei suoi effetti dai recuperi statistici di popolazione operati dal censimento. Se nel 2019 il calo di popolazione era stato piuttosto contenuto sia nel Nord-ovest che nel Nordest (rispettivamente -0,06% e -0,01%), nel corso del 2020 il Nord-ovest registra una perdita dello 0,6% e il Nord-est dello 0,3%”.
Nel Nord-ovest, i decessi sono aumentati del 30,2% rispetto al 2019, ovvero quasi il doppio della media nazionale, pari al 16,7%. È la Lombardia la regione che sperimenta le conseguenze più pesanti (+35,6% rispetto al 2019). Mentre a livello provinciale incide in modo significativo sulla dinamica naturale l’impatto delle province di Bergamo e Brescia.
Nelle stesse province del Nord d’Italia, alle conseguenze della pandemia sulla mortalità si sono aggiunte le ripercussioni provocate dalle restrizioni alla mobilità, soprattutto internazionale. Bergamo e Brescia, che nel 2019 mostrano un’incidenza percentuale sul totale del saldo estero nazionale al di sotto solamente delle province con grandi città, nel 2020 vedono diminuire il proprio contributo alla dinamica migratoria estera di oltre un punto percentuale. Con tassi migratori esteri che passano rispettivamente da 3,1 e 3,6 per mille del 2019 a 0,9 per mille nel 2020. Mentre quello nazionale si riduce dal 2,6 per mille del 2019 all’1.5 per mille del 2020.
Si spopolano Sud e Isole
Sono invece il Sud Italia e le Isole a subire gli effetti maggiori del calo della popolazione, a fronte di una distribuzione territoriale pressoché immutata rispetto al censimento del 2019. Il 46,3% degli italiani censiti risiede nell’Italia Settentrionale, il 19,8% in quella Centrale, il restante 33,8% nel Sud e nelle Isole.
Ma la recessione demografica del 2020 fa registrare un calo soprattutto al Sud, dove si registrano un -1,2% nell’Italia Meridionale e -1% nelle Isole. Se infatti nell’Italia Centrale sono state conteggiate come abitualmente dimoranti quasi 30 mila unità in più rispetto alla popolazione calcolata, e 20 mila unità in più nell’Italia Nord Occidentale, nel Sud sono oltre 97 mila in meno. Con picchi in Molise (-2,1%), Calabria (-1,8%), Campania (-1,5%) e Sardegna (-1,3%). La Campania, insieme Lombardia, Veneto, Lazio e Sicilia, resta comunque fra le 5 regioni più popolose, dove si concentra più del 50% dei residenti. Solo la Toscana non ha subito cali di popolazione.
Guardando ai Comuni, il Censimento Istat rileva che quasi tre su quattro perdono popolazione rispetto al 2019. Subiscono in particolare cali demografici il 62,8% dei comuni tra 20 e 50 mila abitanti (il 4,7% dei comuni italiani) e oltre tre quarti di quelli fino a 5 mila (pari al 70% dei comuni italiani). Tra i 44 comuni con oltre 100mila abitanti, solo uno su quattro guadagna popolazione (erano tre su quattro tra il 2011 e il 2019).
Come nel 2019, anche nel 2020 Roma è il comune più grande con 2.770.226 residenti, e Morterone (in provincia di Lecco) quello più piccolo che ne conta appena 29.
Ogni 5 nonni, un solo nipote. Si accentua l’invecchiamento della popolazione.
Sale l’età media degli italiani: da 45 a 45,4 anni. Ma, nel complessivo invecchiamento progressivo, la situazione è variegata se guardiamo a singoli territori. La Campania, con un’età media di 42,8 anni (42 del 2019), continua a essere la regione più giovane, la Liguria quella più anziana (48,7 come nel 2019). Il comune più giovane è, come nel 2019, Orta di Atella, in provincia di Caserta (età media 35,7 anni); mentre il più vecchio è Ribordone, in provincia di Torino (età media 66,1 anni).
Nel 2020, per ogni bambino si contano 5,1 anziani a livello nazionale, valore che scende a 3,8 in Trentino-Alto Adige e Campania, e arriva a 7,6 in Liguria.
Sempre più istruiti, ma resta il divario Nord-Sud
Analogamente al 2019, la maggior parte della popolazione di 9 anni e più (il 36,0%) ha conseguito un diploma di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale; il 29,3% la licenza di scuola media; il 15,4% la licenza di scuola elementare; il 4,4% non possiede un titolo di studio. I laureati, compresi coloro che hanno un diploma di Alta Formazione Artistica Musicale o coreutica, si attestano al 14,5% mentre i dottori di ricerca sono 236.086.
Rispetto al 2019, secondo il Censimento Istat 2020 diminuiscono gli alfabeti che non hanno concluso un corso di studi (dal 4,0% al 3,8%) così come le licenze elementari passano dal 16,0% al 15,4% e quelle di scuola media dal 29,5% al 29,3%. Aumentano, sia in valore assoluto che relativo, i diplomati e i titoli terziari di I e II livello e restano stabili, in percentuale, gli analfabeti e i dottori di ricerca.
Le ‘più istruite’ sono le regioni del Centro-Nord. È il Lazio la regione con più laureati (18,5%), seguita da Abruzzo (15,9%), Umbria (15,7%) e Molise (15,6%). I dottori di ricerca variano tra lo 0,2% della Calabria e lo 0,7% del Lazio. Calabria e Basilicata hanno invece purtroppo il primato per le persone senza titolo di studio (6,4% e 6,2% rispettivamente). Nei comuni più popolosi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Verona e Venezia) l’incidenza dei laureati e dei dottori di ricerca è sistematicamente maggiore del dato nazionale. Al contrario, analfabeti e alfabeti privi di un titolo di studio risultano relativamente più numerosi nelle grandi realtà urbane del Mezzogiorno come Catania (5,7%), Palermo (5,0%), Napoli (4,8%) e Bari 4,5%).
Il paradosso delle donne: di più, più laureate ma anche senza titolo di studio
Anche nel 2020 le donne superano numericamente gli uomini. Una dinamica dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione e alla maggiore speranza di vita. La componente femminile rappresenta il 51,3% della popolazione totale, superando gli uomini di 1.503.761 unità. Solo in 2.575 comuni prevale la presenza maschile, essenzialmente per la presenza di stranieri.
Il Comune più rosa d’Italia? È Montebello sul Sangro (Chieti), con 63 uomini ogni 100 donne a fronte di una media nazionale di 95 uomini ogni 100 donne. Mentre a Briga Alta (Cuneo), l’ago della bilancia pende decisamente verso la componente maschile, con 215,4 uomini ogni 100 donne.
Guardando ai titoli di studio, emerge un vero e proprio paradosso. Infatti, il 55,8% dei titoli più alti di studio, compresi i dottorati di ricerca, è stato conseguito da donne. La prevalenza femminile si ha anche per le licenze di scuola elementare (58,7% contro 41,3%) ma anche per gli analfabeti e gli alfabeti che non hanno completato un corso di studi (58,3% donne, 41,7% uomini).
A livello regionale, il gap di genere più importante si ha per coloro che non hanno conseguito un titolo di studio: in Basilicata, su 100 individui 64 sono donne, 63 in Umbria e Marche. Il Trentino-Alto Adige è l’unica regione in cui la componente maschile non istruita sovrasta, anche se di poco, quella femminile (50,4% contro 49,6%). Il gap è evidente anche tra i laureati. In Sardegna, ogni 100 residenti con un titolo post diploma secondario quasi 60 (59,4) sono donne, 58 in Umbria. In Lombardia, invece, si riscontra il maggior equilibrio di genere: uomini e donne hanno percentuali pari rispettivamente al 45,3% e al 54,7%.
I residenti stranieri: giovani, europei, scelgono le città del Nord
Al 31 dicembre 2020 gli stranieri censiti sono 5.171.894, 132.257 in più dell’anno precedente. L’incidenza sulla popolazione totale si attesta a 8,7 stranieri ogni 100 censiti. A fronte di una maggiore presenza della componente straniera rispetto al 2019, la popolazione italiana risulta inferiore di 537.532 unità. Ma su questo risultato – precisa l’Istat -, influisce la diversa metodologia di conteggio utilizzata rispetto alle rilevazioni effettuate nel 2018 e nel 2019.
L’età media è di 34,8 anni ma la componente maschile (32,9) è più giovane di quella femminile (36,7) di quasi 4 anni, grazie a una maggiore incidenza di maschi in età 0-29 anni. I minori stranieri sono 1.047.873, pari al 20,3% del totale della popolazione straniera censita.
La piramide generazionale degli stranieri residenti in Italia – si spiega nel Censimento Istat 2020 – è dunque ‘rovesciata’ rispetto a quella dei residenti italiani. La quota di minorenni è pari al 15,4% tra gli italiani e al 20,3% tra gli stranieri. In particolare, ha meno di 10 anni il 12,3% degli stranieri contro il 7,7% degli italiani mentre gli over 60 sono circa il 9% tra gli stranieri e quasi un terzo tra i connazionali.
Quasi uno straniero su due (47,6%) proviene dall’Europa. Seguono, per continente di provenienza, l’Asia (22,6%), l’Africa (22,2%), l’America (7,5%). Sei stranieri su dieci, quasi 3 milioni di persone, vivono stabilmente al Nord. A livello regionale, la popolazione di cittadinanza straniera rappresenta più del 10% della popolazione complessiva in Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana, Lazio, Umbria e Veneto. È invece sotto il 4% in Basilicata, Molise, Sicilia, Puglia e Sardegna.
Tra i cittadini stranieri, il 36,2% è diplomato e il 32,8% è in possesso della licenza di scuola media. In terza posizione, a differenza degli italiani, si collocano i laureati (11,9%) con una percentuale superiore a quella delle licenze elementari (10,4%). Infine, su 100 stranieri, quasi nove sono analfabeti o, pur sapendo leggere e scrivere, non hanno un titolo di studio. In proporzione, gli stranieri senza un titolo di studio sono più del doppio rispetto agli italiani. Per i primi infatti il valore è prossimo al 9% (8,6%), per i secondi non arriva al 4,0% (3,9%). E si concentrano, come i residenti italiani, nelle regioni del Sud e nei centri abitati più piccoli.
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