Felice Colonna. È nato e vive a Bari. Agente di commercio e amante della scrittura, infatti si definisce “scrittore a tempo pieno”. Partecipa per la prima volta al Concorso 50&Più.
La passeggiata del combattente a riposo era nel suo pieno svolgimento. Il tragitto della conoscenza a distanza dava lustro al torpore pomeridiano, non certo rimpinguato dai caffè della distrazione e della magnificenza dentro le mura. Bologna restava comunque appariscente, volenterosa e smaniosa di farsi scoprire. Gli ingressi aggredivano i trasgressori blindandosi con l’astuzia delle telecamere che si nascondevano arrampicate fra i rami, fra i pali della luce e le aste dei semafori. Una dannazione per gli automobilisti e gli sprovveduti. Percorrevo la corsia esterna in direzione Porta San Mamolo, nome dal sentire fiabesco, rimpicciolito nella doppia emme mancante, e per di più senza cappuccio per il suo nano acquisito. Procedendo con celerità dimessa andavo a zonzo sulle quattro ruote. La velocità della crociera cittadina era quella permessa per gentile concessione degli arcigni contatori, dei rilevatori dei chilometri e delle infrazioni al seguito. Una pacchia per i sindaci e tutta la compagnia poco cantante e molto sonante del denaro altrui. In viale Aldini avevo avuto la fortuna del figliol prodigo che ritorna. Ero riuscito a trovare un parcheggio a pagamento. Lo scrittore in erba, ossia me medesimo, venditore del proprio malloppo cartaceo, aveva deciso di tentare una carta alquanto assurda. Avrei personalmente recapitato il mio primo libro “Dalla mia parte “. Mi sarei recato presso alcune librerie del capoluogo emiliano. L’indomani, con meno fortuna, verificata sul campo, lo avrei fatto in quel di Ferrara. La promozione sul campo e in un settore tutto da scoprire, nella logistica e nella distribuzione dei testi, buoni o meno buoni, validi o meno validi, rappresentava per me una sfida vacanziera, un ingaggio “new wave“ sull’onda tradotta come il ritorno per le vie di un borgo cresciuto e pasciuto. L’anteprima di un racconto che non c’è, e non si sa come si potrebbe evolvere, rappresentava il gomitolo arrotolato, ancora intonso, chiuso nella sua custodia di latta, come in una pellicola tutta da imprimere e da impegnare. Al prefisso “ante”, che indica il piacere di partire, mi attrezzo con il nastro immaginario dell’avvio. È sempre bello avventurarsi forando il vuoto così come le bolle delle nuvole e degli stralci, quelli della conoscenza trasfigurata, rimessa in ghingheri, per le immagini, per le descrizioni e le storie, per l’incoscienza di un neofita che si dà le arie da esploratore in poltrona come sui mezzi di trasporto. Per scrivere a balzi, per vedere a tutto campo, per forzare la memoria. L’editore aveva comunque approvato il progetto di far esporre la mia, fra virgolette, opera prima. Si era dato da fare a inviare messaggi di posta elettronica alle oasi della cultura, della letteratura stampata e finemente rilegata. Aveva assecondato il mio desiderio e la mia presunzione anticipata. Mi era andata bene almeno al principio e alla benevolenza di colui che mi aveva ascoltato. Aveva fatto lo stesso un tassista con il suo Lisbona 11 o il Malaga 21. Il nome della sua vettura, di marca transalpina, proprio non lo ricordo, il suo nome sì: Fabio Mercanti. Il corridore non si era lasciato sfuggire l’occasione di scorrazzarmi dentro la metropoli. Quel pomeriggio stranamente assolato si lasciava proteggere dagli alberi, dalle foglie e dalle ricche colline bolognesi. Le strade e le viuzze del centro erano gremite di gente, di caffè caldi e di chiacchiere gracchianti. Un crepitio controllato di rumori con l’andirivieni sotto i portici e nella piazza governata dalla divinità mitologica. Un Nettuno forzuto era sempre disponibile a torcersi e imporsi. La divinità pagana, capricciosa e tollerante si era messa a disposizione. Aveva velocizzato le capacità visive e l’abilità al volante del mio autista. L’ “Easy Rider” nel partire e ripartire, nel sostare e riprendere la corsa. Facilità motorizzata che svicolava fra le vie e gli stradoni, negli spiazzi ampi e in quelli angusti. Bilancia della compensazione che soppesava le perplessità di chi, libraio o assistente, fosse frastornato nel ricevermi, ascoltarmi e accettare il mio dono momentaneo, ossia a tempo determinato. Il Poseidone, dal bronzo ossidato e verdastro, scrutava il suo panorama. Piazza Maggiore rigirava il suo grandangolo e il suo fondoschiena. La sua vista conteneva il circondario a mo’ di anteprima e di spezzone e orizzonte cinematografico. Gli oggetti e i soggetti riuscivano ad esprimersi al meglio, o almeno questo nell’intendimento del regista che mi sarei scelto, esclusivamente in bianco in nero per un gusto di avanguardia, o meglio di retroguardia. Compito che avrei potuto affidare al Dennis Hopper e alla sua motocicletta ma la cosa non mi convinceva. Troppo lontano dal bailamme nostrano. Meglio il vate d’Oltralpe per soddisfare al compito assegnato dal copione. Ero a piedi a girarmi e rigirami con la cinepresa avuta in prestito. Jean Luc Godard mi lanciava sguardi perplessi e interrogativi. Era troppo distante dalla scena per lanciarmi frecciate di disappunto e gridarmi dietro. Come attore non protagonista mi nascondevo forse un po’ troppo fra i portici e le colonne di supporto. Sfuggivo e rientravo appena nella sua cinepresa. Ero sceso dal mio tassì ed ero scappato via. Velocemente. Il driver aveva trovato parcheggio. Era riuscito da infilarsi nel bel mezzo del centro storico che più al centro non si poteva. Da “Nanni” la libreria felsinea più antica, quella di via dei Musei si respirava un’aria di silenzio composto. La titolare, distogliendo il suo interesse da qualcosa, che non riuscivo a definire, sollevò i suoi occhi e le lenti a metà naso. Ascoltando la mia istanza, breve e concisa, aveva mostrato la sua rituale attenzione. Era avvezza alle novità, ai questuanti e alle richieste del dare e avere in materia letteraria. Si mostrò comprensiva, cortese. Di buon grado acconsentì alla mia proposta del conto vendita. L’avevo convinta e comunque la lettera di presentazione della mia spalla editoriale aveva colto nel segno. Conosceva bene la mia casa editrice e la collana dei “Menhi”. L’amico Giuseppe di cotanta progenie era stato davvero bravo. Le sue prerogative formali non sarebbero venute meno. Si aggiungeva anche l’aspetto estetico del libro che non dispiaceva affatto. La copertina del grosso tomo e la sua patina riuscivano, insieme alle parole, ad incantare l’interlocutrice, la signora dalle maniere gentili. L’alba di Tangeri, il grigio, screziato dal sole nascente, il mare, rapito, compreso ed esaltato dal proporsi del blu in tinta, che lambiva la superficie e si immergeva nella profondità. Un’immagine accattivante, accondiscendente per un sorriso e per la curiosità di una figura al femminile che si sporgeva. Costei, che entrata da poco, era rimasta in attesa. Si era spostata fra gli spazi a disposizione, fra i banchi e i filari delle pubblicazioni. Di sé dava un’immagine singolare, come per distinguersi e sbirciare fra le risme e i libri sovrapposti, in linea e in altezza. Una distrazione destata e che si aggiungeva per suscitare l’interesse e qualcos’altro. Raccogliendo la disponibilità all’approccio, presumibile e presuntuoso, mi uscì di bocca un poco innocente ingaggio: “Le piace?”, porgendo a miglior vista, la facciata superiore del mio libro, la foto patinata e l’orizzonte a più dimensioni, “Prego la guardi. È un’alba. L’alba e il cielo di Tangeri”. La donna avvenente, matura nell’aspetto ma giovane ancora. I suoi occhi grandi completavano un viso perfetto. Indossava un cappotto leggero, non molto lungo, di buon taglio, color nocciola, con i risvolti fra il bianco e l’avorio. Aveva le mani sottili, lunghe e molto curate. Raccolse l’invito e la pubblicazione. Aprendola a caso le fu offerto il titolo di un capitolo, “Fade”. La sorpresa della sua traduzione sortirono un lieve sconcerto, come il luogo della località in copertina. Un rammarico contenuto, annebbiato appena. Un aggancio del suo passato e dello sconforto che si stava prolungando per poi dileguarsi così come le cose e l’ambiente che tornavano al presente alla mia stretta di mano mentre pronunciavo il mio nome e il mio cognome, quale autore del libro. La sua risposta fu breve: “Aurora Morandi”. Il congedo fu cosa fatta.