Maria Cogato. Ex commerciante ora in pensione, madre di tre figli e nonna di otto nipoti scrive per diletto poesie da sempre. Partecipa al Concorso 50&Più per la seconda volta. Vive a Alba (Cn).
Ho conosciuto la guerra a cinque anni. Quei miei occhi azzurri, che tutti si fermavano a guardare, hanno osservato avvenimenti più grandi della piccola consapevolezza del mondo che potessi avere. Da un momento all’altro ho iniziato a percepire attorno a me frenesia, tristezza, e tanta paura. Me ne sono accorta quando ho notato che la mamma aveva perso il suo sorriso e papà era sempre molto teso, allarmato, come su un costante chi va là. Soprattutto, la trattoria gestita dai miei genitori a Marola, la città in cui sono cresciuta in provincia di Vicenza, improvvisamente si era popolata di uomini grandi in divisa che parlavano talvolta una lingua che non conoscevo e talvolta, invece, solo con accenti diversi da quello che avevo sempre sentito. Non lo sapevo ancora, ma da quel momento, casa mia si sarebbe riempita di soldati. Mangiavano, si ubriacavano, urlavano. Mi sembravano dei matti. Ho iniziato ad avere paura di loro quando una sera ero nel mio letto al piano di sopra e dei rumori forti mi hanno svegliata. Con la lentezza dettata dalla paura ma con una irrefrenabile curiosità della mia età di bambina, mi sono affacciata dalla porta della mia camera che dava su un pianerottolo da cui scendevano le scale per andare alla trattoria. Vedo un soldato in cima alle scale e uno al fondo. Vedo i loro volti tesi, gli occhi sbarrati, le braccia allungate e le pistole puntate l’uno contro l’altro. Ricordo quel momento come bloccato, sospeso nel tempo; all’improvviso, sento delle braccia che mi tirano a sé. Mia nonna Pina mi prende e trascina via e mi nasconde sotto il letto insieme a lei mentre mi dice: «Vieni qui piccina mia, diciamo due preghiere per questi cretini che non sanno nemmeno cosa fanno!».
La guerra ha iniziato a svelarsi nel mio piccolo mondo sotto altre forme, suoni e avvenimenti a me ancora sconosciuti. Un giorno a scuola ci hanno insegnato che al suono di una sirena, che mi faceva rabbrividire, avremmo dovuto correre insieme alle suore lungo la strada di campagna e nasconderci sotto le siepi perché non ci vedessero gli aerei. La prima volta che la sirena ha suonato mentre correvo via ho subito alzato gli occhi al cielo e ho visto un aereo fare come delle evoluzioni tra le nuvole. L’aereo stava precipitando e ho visto il pilota buttarsi giù con il suo paracadute. Subito dietro di noi sento arrivare voci dei contadini dai campi: «Andiamo ad ammazzarlo! Correte!». Giorni dopo ho saputo che quell’uomo era stato fatto prigioniero dai soldati: ho pensato fosse stata una fortuna per quel poveretto ma anche per la mia famiglia. Il suo aereo era caduto a 100 metri da casa mia, in un prato. Il ricordo di quella carcassa di metallo mi ha seguita per diverse notti, rimanendo indelebile nella mia mente.
Nei mesi successivi ho visto di nuovo cadere la morte dal cielo: i piloti di Pippo, aereo che controllava la città, avevano avuto un incidente schiantandosi contro una riva. Il giorno dopo ho fatto visita al cimitero insieme ad altri bambini per vedere le loro salme. Solo la testa usciva dal lenzuolo, non ho visto che i loro capelli scuri. Poco dopo, è passato un carro agricolo per portarli via e noi siamo corsi dietro. Correvamo, non sapevamo nemmeno perché: non pensavamo al dolore, alle loro madri o alle loro mogli che piangevano. Non ci accorgevamo del dolore, eravamo solo bambini che corrono dietro un carro.
I bombardamenti iniziavano via via a essere sempre più frequenti. Quando erano vicini, la mamma ci prendeva e ci portava in cortile e ci faceva accucciare dentro un grande albero per evitare che le schegge ci colpissero, o peggio, che la casa ci crollasse sopra la tesa. Mi dava un senso di protezione stare tutti lì stretti, ad aspettare. Amarillo, il mio fratellino, stava tra me e mia mamma e gli parlavamo per cercare di coprire con le nostre voci il rumore dei colpi, sperando di tranquillizzarlo.
A casa nostra veniva spesso un sergente tedesco, con grossi baffi sotto il naso. Era simpatico e parlava con un accento che ci faceva molto ridere. La sera spesso giocavamo tutti insieme a tombola: lui diceva i numeri in tedesco, io in italiano, e la serata trascorreva in allegria. Mia zia Emma lo chiamava “Mostaciti”, per via dei suoi baffi. Eravamo affezionati a lui, soprattutto la zia. Quando lui è dovuto partire per il fronte è venuto a salutarci. Chissà a cosa stava pensando in quel momento. Eppure, lui sorrideva come sempre. Mia zia, al momento dei saluti, gli ha dato una medaglietta della Madonna di Monte Berico di Vicenza. Lui l’ha ringraziata ed è partito. Ricordo la sua figura che si incammina lungo la strada, c’era solo lui, con la sua divisa, il cappello in mano, e chissà quante preoccupazioni sulle spalle. Ma a quello non ho pensato. Ero sempre una bambina. Dopo qualche mese, una notte in cui eravamo già tutti a letto, sentiamo qualcuno urlare giù dalla finestra: «Emmi, Emmi! La tua medaglietta mi ha salvato!». La zia Emma si affaccia dalla finestra e vede Mostaciti. Ci ha raccontato che aveva attraverso il Po sopra un asse di legno e aveva seriamente temuto per la sua vita stringendo al suo petto la sua medaglietta.
Avevo imparato a conoscere i soldati tedeschi andando a scuola, anche se raramente potevamo andarci. Ricordo che c’era un accampamento delle SS accanto alla mia scuola e nell’intervallo in cortile ci sporgevamo oltre le siepi per vederli. A volte loro ci sporgevano della cioccolata, che divoravamo in un secondo dopo averla divisa tra noi. Oltre a loro, però, per la città giravano sempre di nascosto altri soldati che a volte conoscevo per nome e che si facevano chiamare Partigiani. Dicevano che i tedeschi erano cattivi e un giorno dissero a mia mamma che avrebbero teso loro un agguato nella notte. Mia mamma subito li mise in guardia, tra lo sgomento e l’incredulità: «Ma siete matti? Non sentite cosa fanno i tedeschi in Piemonte?». Io non sapevo cosa facessero i tedeschi in Piemonte. I tedeschi che ho conosciuto in Veneto mi davano la cioccolata nell’intervallo e a noi bastava così poco per essere felici e per far tacere il gorgoglio dello stomaco affamato. I bambini non giudicano, osservano, e traggono conseguenze da quello che vedono. Ma giudicare è un atteggiamento da adulti. Ed io non sapevo cosa pensare dell’affermazione della mia mamma e non ho saputo dosare le sue parole e attribuire loro un senso. Quella notte ho teso l’orecchio per sentire se dalle strade arrivassero rumori: volevo stare in piedi tutta la notte per scoprire cosa sarebbe successo ma mi sono addormentata e il giorno dopo ho scoperto che, alla fine, non era successo nulla.
Sono cresciuta negli anni convivendo con la guerra, come una parte ormai normale della mia vita. La quotidianità si era adeguata a quel nuovo senso del tempo, che ticchettava a suon di bombe, sirene, marce di soldati, bicchieri alzati e risate troppo esagerate in trattoria, colpi di fucile, colpi di pistola, corse nei campi. Un giorno ho visto i soldati tedeschi in marcia, tutti uniti, con i fucili abbassati. L’ho capito dopo che si stavano ritirando. Nella nostra trattoria però i soldati non ne erano mai andati: cambiavano accento, cambiavano divisa, ma c’erano sempre. Ora parlavano un’altra lingua, l’inglese, e si atteggiavano come gloriosi liberatori. Un soldato inglese o americano, non lo saprò mai, a cavallo quando ha visto mio fratello Amarillo di soli 5 anni che lo guardava dal basso l’ha preso in braccio per metterlo sul cavallo. Amarillo ha iniziato a piangere dicendo che il cavallo gli pungeva la schiena e voleva scendere. Attraverso questo gesto e questo pianto ho conosciuto i soldati che venivano dal mare.
Ma alla fine, anche i soldati inglesi e americani se ne sono andati. La guerra era finita. Si sentiva nell’aria, nei suoni, nei profumi, nei sorrisi, nelle lacrime, negli occhi profondi di chiunque si incontrasse per strada. Eravamo bambini, ma quella fine l’abbiamo percepita in ogni aspetto, l’abbiamo capita in tutta la sua potenza inattesa. Il brivido del cambiamento, la vertigine dello slancio verso un futuro senza la paura e la disperazione erano radicati in tutti gli sguardi. Le prospettive si stagliavano verso un orizzonte di speranza, di una vita nuova che dimostra di essere capace di rinnovarsi, sempre.
La guerra era finita. E in me si non rimanevano che i ricordi. Alcuni li ho rimossi, alcuni sono sfumati nel tempo della memoria, strumento meraviglioso ma, si sa, estremamente fallace. Il momento che mi sembra di rivivere però sempre, che mi ha accompagnato nei sogni agitati delle notti di adolescente e di adulta, risale a un’immagine chiara, nitida nella mia mente, tangibile in tutte le sfere sensoriali. È inverno, il camino di casa mia è acceso. Io sono lì davanti che mi scaldo e a un certo punto sento arrivare un rumore che si fa sempre più inteso, un boato che rimbomba nella canna fumaria del camino e che arriva verso di me. Sento il rumore degli aerei come se volassero sopra la mia testa. Sento il fragore farsi sempre più forte, come se mi avesse raggiunta dentro casa, come se fosse dentro le pareti, dentro i mobili, dentro la mia testa. Lo sento dentro di me e mi spaventa. Ma io rimango immobile in quella calma apparente del salotto e attendo. Guardo il fuoco scoppiettare e non sento il suo rumore flebile e armonioso. Pochi minuti, non riesco nemmeno a contarli, e tutto passa. E sento solo più un calmo crepitare delle fiamme che ardono il legno come in una danza. Improvvisamente, la quiete.