Il cambiamento climatico ci rende più stupidi. No, non è una boutade, ma la conclusione a cui sono arrivate alcune ricerche di neuroscienza applicata. In sostanza: più aumenta la CO2 e più calano le nostre prestazioni cognitive e decisionali. Si tratta di uno degli effetti più sottostimati (e più preoccupanti) del cambiamento climatico, soprattutto se lo paragoniamo agli impatti devastanti delle alluvioni e della siccità, ormai quasi quotidianamente davanti ai nostri occhi e che, in qualche modo, abbiamo pericolosamente normalizzato.
Uno di questi studi è stato condotto da Strobilo, un’azienda di neuroscienze applicate il cui scopo è quello di definire scenari predittivi a partire da quelle che sono le relazioni tra gli esseri umani e il pianeta terra. Le conclusioni sono piuttosto semplici: il nostro sistema biologico è basato su una certa condizione ambientale, che è rimasta stabile per diversi millenni e che poi, negli ultimi 50-70 anni, è cambiata in maniera repentina. Noi come genere umano non abbiamo la minima capacità di adattarci in così poco tempo a condizioni ambientali del tutto nuove, in parole povere, non siamo preparati a vivere nell’ambiente che ci ospita.
Più nel dettaglio, basti pensare che ci siamo evoluti ad una concentrazione media di anidride carbonica (CO2) in atmosfera di circa 280 parti per milione (ppm), mentre oggi siamo arrivati a 424 ppm, ovvero quasi il doppio. Non solo. Trascorrere tanto tempo in un luogo chiuso condiviso con altre persone espone il nostro cervello a delle quantità di gas ancora maggiori: quando siamo a scuola, in auto o nelle nostre case, raggiungiamo la soglia di oltre le 2.000-2.500 parti per milione, esponendo il nostro cervello a una quantità di gas a dir poco folle.
Se il nostro sistema biologico si è sviluppato per operare ad una certa concentrazione di gas serra, è intuitivo – e comunque adesso anche scientificamente provato – che soffra a causa di questa continua sovraesposizione. Ma, in particolare, a quali effetti stiamo andando incontro?
In concreto, è come se il nostro sistema neurologico avesse una piccola asfissia, andasse in sofferenza: ecco che, senza che ce ne rendiamo minimamente conto, noi accusiamo una diminuzione delle nostre capacità cognitive, che può arrivare fino al 50%.
In sostanza gli studi confermano che gli impatti a livello cognitivo dell’aumento dei livelli di CO2, che è il principale indicatore della qualità dell’aria in spazi chiusi, rappresentano un effetto “diretto” della concentrazione del gas, esattamente come l’acidificazione degli oceani, ad esempio. Ciò vuol dire che, in entrambi i casi, è la CO2 elevata in sé – e non il successivo riscaldamento che essa provoca – a scatenare i danni. E, in questo caso, i danni di cui stiamo parlando riguardano la capacità di utilizzare le informazioni, la perdita della capacità di calcolo, di essere creativi, di prendere iniziative o decisioni strategiche. Tutte abilità che afferiscono a una parte specifica del cervello, che è il lobo frontale e che risente tantissimo di questa scarsità di ossigeno e di saturazione di CO2. Ma non finisce qui, la parte più inquietante della questione è che potrebbe esserci un legame tra la concentrazione di CO2 e l’insorgenza di demenza senile.
Le stesse ricerche ci offrono però anche qualche spunto positivo. Se con l’aumento della CO2 il nostro cervello inizia a ridurre le proprie performance cognitive, allo stesso modo, il livello di stress si riduce quando entriamo in contatto con il verde, i boschi, la natura incontaminata. Insomma, l’uomo negli anni si è allontanato sempre più dalla natura, ma il suo corpo è ancora progettato per stare nel verde. E per chi non può passare la giornata al parco, ci sono soluzioni alternative, come aprire le finestre e garantire un ricircolo d’aria che andrebbe a ridurre sia lo stress termico sia la concentrazione di CO2. Anche se, come scrive il pensatore indiano Amit Ray: “Guardare la bellezza della natura è il primo passo per purificare la mente”.
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