Bruno Civran. Ex farmacista in pensione, frequenta e segue alcuni corsi di pittura dell’Unitre di Gorizia, città in cui vive. Dipinge e scrive ricevendo consensi e menzioni speciali. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta.
Avete mai visto un angelo? Vi siete mai chiesti che aspetto abbia? Se abbia le fattezze di un efebo o la grazia di una fata?
Sono domande intorno alle quali teologi, filosofi e studiosi da tempo hanno molto discusso senza approdare a nessuna risposta certa e condivisa.
Gli artisti delle forme plastiche o di quelle grafiche (e almeno nei secoli in cui la forma umana veniva rappresentata in modo verosimigliante a quella reale), hanno immaginato gli angeli sotto le sembianze di piccoli bambini, quasi “putti” di pagana memoria, dotati di piccole ali oppure sotto l’aspetto di persone adulte, quasi asessuate, paludate con vesti per lo più bianche ed ali policrome.
Eppure, poco tempo fa, proprio chi scrive, ha avuto l’opportunità di vedere un angelo, tutto bianco, ma inizialmente difficile da distinguersi, confuso com’era tra la folla policroma del turismo estivo…
Assisi.
È quasi mezzogiorno sulla piazza antistante la chiesa di S. Chiara. È l’ora più calda d’una giornata di sole nel mese di agosto.
Una folla policroma di turisti ingombra il sagrato e a frotte gremisce le scale della chiesa scendendo i gradini rosati di marmo o cercando di entrare nel tempio che inesorabilmente sta chiudendo le porte; altri gruppi si attardano ai bordi della fontana zampillante fresche acque; altri ancora passeggiano lungo il basso muretto alberato che cinge il belvedere aperto all’infinito dolce panorama umbro; altri infine si disperdono dietro gli archi rampanti della chiesa o nel dedalo di viuzze che costituiscono l’ineffabile “vissuto francescano” di Assisi.
In tutto questo brulichio di persone risulterebbe assai difficile cercarne una (anche se con essa abbiamo pattuito un appuntamento), se non ne conoscessimo almeno le fattezze, l’abbigliamento o il luogo preciso dove puntare lo sguardo per individuarne la presenza.
E se poi non si conoscesse fisicamente la persona, né con essa avessimo concordato un particolare luogo per l’appuntamento, sarebbe ancora più difficile riconoscerla, individuarla, scoprirla od immaginarla al di fuori del nostro “io” inconscio.
Ma un angelo poi!
Non avevo nessun appuntamento con una particolare persona, né tanto meno con un angelo, anche se il luogo, la località o lo stato d’animo avrebbe potuto in qualche modo giustificare la ricerca di quell’angelo che c’è dentro ad ognuno di noi e che vorremmo vedere per parlargli con gli occhi del cuore più che con le labbra della bocca.
Ma un angelo, tra la folla, lo individuai!
Anche con fatica e solo per il fatto che si ergeva più alto delle altre presenze.
Era vestito di bianco, con un soave sorriso, appena pronunciato, sul volto luminoso di una giovane ragazza.
Aveva attratto la mia attenzione perché era assolutamente immobile.
Una bassa predella, ricoperta da una tovaglietta bianca (e più tardi scoprii essere una cassetta di plastica per le verdure), tentava di rendere più evidente la snella figura; a piedi nudi, guardava fissa un punto lontano senza tempo; una semplice tunica di lanetta cascante l’avvolgeva di bianco sottolineandone appena appena i fianchi ed un piccolo seno; dalla schiena, quasi all’altezza del collo, due piccole ali posticce, anch’esse bianche, ne denunciavano il carattere angelico altrimenti poco comprensibile data la presenza di un volto imbiancato pesantemente di cipria quasi da far confondere la figura con un asceta penitente.
I capelli, castani, risultavano disposti con una grazia proporzionata alla compostezza dell’insieme: le braccia erano raccolte al centro della figura, quasi appoggiate al busto e, in modo aggraziato, la destra teneva, infilato fino al gomito, un piccolo cestino di vimini, mentre la sinistra, leggermente piegata in avanti all’altezza del cuore, porgeva con la mano, quasi volesse offrirlo all’occasionale passante, un piccolo dono costituito da un cristallo di rocca (penso) completamente trasparente e della grandezza di una grossa noce.
Incuriosito, mi fermai, sedendomi sul muretto e alle spalle dell’angelo, ad osservare la scena.
Ma la curiosità non era soltanto mia perché molti turisti, affascinati anch’essi dalla ieratica figura, ne osservavano l’immobilità e scattavano alcune foto comprendendo in esse, quasi un corollario al ricordo di Assisi, la figura dell’angelo accanto a quella di un proprio famigliare. I più piccoli l’additavano ai genitori distratti, altri si voltavano proseguendo poi la propria strada, altri ancora ne valutavano l’immobilità che probabilmente metteva a dura prova la costanza e forza fisica della fanciulla.
Altri, infine, si accorgevano che una piccola scatola bianca di cartone, era ai piedi della figura.
L’angelo chiedeva la carità del prossimo!
Non tutti rispondevano a questa richiesta, ma qualora qualcuno l’avesse fatto, l’angelo finalmente avrebbe frantumato la propria immobilità e con un gesto lentissimo, quasi d’automa, avrebbe tolto dal cestino di vimini un rotolino di carta e l’avrebbe consegnato con un sorriso ancor più acceso e senza parola alcuna, all’occasionale benefattore; il quale benefattore incuriosito, avrebbe srotolato il piccolo messaggio e forse sarebbe stato deluso, leggendo in esso, parole semplici come: pace, serenità, bontà; cosa che mi capitò di vedere.
Non tutti, esaurita la curiosità, conservavano il biglietto.
Non tutti si accorsero che un piccolo cane, anch’esso bianco, teneva compagnia al suo angelo e che, parimenti, con la stessa pazienza stava immobile ed accovacciato, ai piedi, anzi accanto alla predella della figura. Teneva il muso tra le zampe anteriori e, con gli occhi neri mobilissimi, osservava il tramestio tutt’intorno, con quella mansuetudine e accondiscendenza che solo un cane può dimostrare nel non chiedere mai al proprio padrone, il perché di certi comportamenti.
Una punta di fame mi suggerì di sbocconcellare un panino e la consapevolezza che anche quell’umile animale ne avrebbe avuto altrettanto desiderio, mi indusse a lanciargli vicino un pezzetto del mio pranzo; la sua sorpresa fu grande ed altrettanto il suo scodinzolante ringraziamento; chissà da quanto tempo i due personaggi si trovavano in quel luogo, immobili e affamati e forse solo l’angelo poteva conoscerne il perché.
La mia generosità si ripeté più volte senza alcun riscontro apparente da parte della padroncina, ma ad un certo momento il suo corpo cominciò ad animarsi: scese dalla predella e girandosi lentamente mi ringraziò con un sorriso ancor più sincero dei precedenti; si sedette sulla predella e si staccò le ali che ripose nel cestino assieme al cristallo di rocca; infine si alzò e prese il drappo che copriva la cassetta della verdura al cui interno collocò tutti i suoi averi mentre il cane gli scodinzolava intorno.
Ormai angelo sceso in terra, a piedi nudi si mescolò alla variopinta e distratta folla di Assisi in un soleggiato giorno d’agosto.
Della sua figura, che voltandomi le spalle e man mano rimpicciolendosi, si perdeva tra la calca, mi sono rimaste impresse nella memoria le piante dei suoi piedi sulle quali scorgevo evidente il grigio della polvere della strada che si alternava, passo passo, al bianco immacolato di tutto il resto.
Si allontanò dal mio sguardo senza mai voltarsi.
Gli archi rampanti della chiesa di Santa Chiara abbracciarono con un ultimo saluto la sua esile figura che si allontanava; poi ne preclusero definitivamente la vista.
Non potrò mai più rivedere “questo” angelo, né potrò mai parlargli neppure con gli occhi per dire tutto ciò che mai ci siamo detti e mai potremo dirci.
Io ho visto un angelo.
Forse non era un vero angelo.
Forse era un nuovo modo per chiedere l’aiuto di un po’ di carità non ricevuta altrimenti.
Forse altri potrebbero condannare e giudicare questo modo non proprio corretto di ricercare un’umana, concreta empatia stimolando, in una gratuita offerta, il senso della religiosità che, in modo più o meno avvertito, sussiste in ognuno di noi.
E in quel luogo in particolare.
Forse taluni potrebbero criticare il fatto che la giovinezza della ragazza avrebbe potuto aiutare sé stessa con un lavoro più qualificante e forse meno umiliante.
A tutte queste perplessità non presento nessuna risposta perché ciascuna domanda offre l’opportunità di riflettere meno superficialmente dentro noi stessi e perché dobbiamo tentare almeno una volta di trasferire tutto quello che si vede con l’occhio, nelle dimensioni del cuore.
In una dimensione quindi che pone tutte le nostre vicende molto al di là dell’aspetto puramente narrativo, visivo e superficiale di ogni racconto e al di là di ogni nostro umano giudizio!