Dal monitoraggio di 44 Day Hospital onco-ematologici emergono luci ed ombre. Se i pazienti possono contare su un avvio abbastanza rapido delle terapie, devono poi affrontare percorsi lenti e attese anche fino ad 8 ore per le terapie. Tecnologia e cure domiciliari ancora poco diffuse nonostante l’impulso dato dall’emergenza Covid.
In Italia sono 3,6 milioni le persone malate di tumore. Il 6% della popolazione. Persone che devono affrontare insieme ai loro familiari e caregiver percorsi di cura lunghi e dolorosi, sia dal punto di vista fisico che, soprattutto, emotivo. Che supporto e quali servizi hanno a disposizione negli ospedali italiani e come è cambiata la situazione con la pandemia? A queste domande risponde un report promosso dall’organizzazione Cittadinanzattiva che ha monitorato 44 Day Hospital onco-ematologici. Registrando una situazione di luci e ombre da cui prendono spunto alcune “Raccomandazioni civiche” dell’organizzazione a sostegno di una migliore assistenza dei malati oncologici.
Pochi posti letto, 1 struttura su 4 senza psicologo, più della metà senza palliativista
Dei 44 ospedali esaminati, il 59,1% offre da 1 a 9 posti letto per i DH oncologici. Solo il 9,1% dispone di almeno 20 posti letto o più. Il personale sanitario che segue i pazienti, rimasto invariato nell’emergenza nella maggior parte delle strutture, è composto in media da 7 medici, 3 specializzandi e 11 infermieri che si alternano durante gli orari ed i giorni di apertura del servizio. Nel 75% delle strutture è presente uno psicologo, nel 43% il nutrizionista e il palliativista e nel 45% delle strutture una figura di supporto alle pratiche amministrative.
Nel 63% delle strutture c’è anche uno spazio dedicato alle associazioni di sostegno a malati e familiari ma “il 72% delle strutture dichiara di aver dovuto limitare la presenza dei volontari – si evidenzia nel report -, specialmente durante la prima fase dell’emergenza Covid”.
In oltre il 70% delle strutture orario continuato, ma solo un terzo ha un servizio di emergenza
Tutte le strutture monitorate garantiscono un orario di apertura di almeno 250 giorni all’anno, la maggior parte di oltre 36 ore settimanali. Un dato “particolarmente positivo” è che oltre il 70% delle strutture garantisce un orario continuato, il 65% oltre le ore 17 e il 22,7% è aperto anche il sabato. Orari che in oltre l’88% delle strutture non sono stati modificati con il Covid. Anzi: l’11% dichiara di aver preferito ampliare l’orario di accesso per scaglionare gli ingressi e garantire la sicurezza di pazienti, accompagnatori e personale.
Tuttavia, per assicurare una continuità terapeutica solo il 31,8% delle strutture ha in attivo un servizio per le emergenze. Servizio che, peraltro, è gestito in modo eterogeneo. Solo alcune strutture mantengono il servizio per 24 ore al giorno e per 7 giorni su 7, altre solamente per 2 ore. Normalmente l’orario di apertura coincide con quello del DH e generalmente per 5 giorni alla settimana.
Per la terapia attese anche superiori alle 8 ore
Il 93% dei DH dichiara di non aver rallentato i tempi di avvio delle terapie per la pandemia. Ma il 13,6 % delle strutture convoca i pazienti alla stessa ora. Questo significa per i malati coinvolti tempi di attesa più lunghi, anche oltre le 8 ore, e una gestione irrazionale degli appuntamenti che non tiene conto dei diversi tempi di somministrazione delle terapie disponibili oggi. Oltre il 22% dei DH non separa infatti i percorsi tra chi deve effettuare controlli o terapie brevi e chi deve sottoporsi a terapia infusionale; oltre il 40% non monitora i tempi del percorso al fine di migliorare il percorso di cura e oltre il 20% non utilizza software per la gestione del percorso del paziente. È invece indice di attenzione alle esigenze del paziente il fatto che il 34% dei DH organizzi l’accoglienza anche in base ad esigenze di lavoro o familiari.
Dall’ospedale a casa: quanto si investe sull’assistenza domiciliare?
L’indagine di Cittadinanzattiva ha analizzato anche quanto le strutture ospedaliere abbiamo investito nelle cure domiciliari. Purtroppo, su questo fronte i risultati non sono positivi. Il 29,5% delle strutture ha previsto, sotto l’attenta valutazione di medici specialisti, la possibilità di passare a terapie orali più facilmente gestibili al domicilio o presso strutture territoriali, o comunque terapie più brevi (6,8%). Anche la somministrazione di farmaci al di fuori degli ospedali è stata sperimentata in appena il 32% dei casi.
A causa del Covid, però, l’87,5% delle strutture dispone di un servizio di consegna dei farmaci a domicilio e il 52,3% di servizi di counceling farmaceutico per fornire supporto al paziente nel corretto utilizzo della terapia a casa. Laddove questi servizi erano già previsti, la pandemia ha stimolato il loro ampliamento.
Le cure a domicilio fra benefici e ostacoli
Cittadinanzattiva ha voluto indagare anche la volontà dei DH di rendere strutturali le cure domiciliari o di prossimità attraverso la stipula di protocolli o accordi formali tra ospedale e territorio (rete oncologica). Su questo versante, i dati sono incoraggianti. Infatti, il 31,8% delle strutture ha formalizzato l’individuazione di “setting assistenziali alternativi”, ovvero luoghi di cura diversi dall’ospedale, di cui il 18,2% nell’abitazione del malato. Le strutture che hanno previsto protocolli o formalizzato soluzioni organizzative in questa direzione si trovano in Veneto, Campania, Lombardia, Umbria e Puglia. Tra le soluzioni più frequenti, un incremento di terapie domiciliari (terapie di supporto, trasfusioni e somministrazione farmaci); una maggiore assistenza domiciliare integrata; cure palliative domiciliari.
Emergono tuttavia ostacoli diffusi, come: carenza di personale; resistenza da parte dei medici di base; poca disponibilità; burocrazia; ostacoli economici e organizzativi. Quasi il 30% delle strutture non garantisce nella transizione di cura la ricognizione/riconciliazione farmacologica e nel 61% delle strutture non sono previsti protocolli specifici; “come se questa pratica – sottolinea l’indagine di Cittadinanzattiva – sia di fatto lasciata a scelte spontanee degli operatori sanitari”. Anche sul versante della continuità terapeutica quasi il 60% delle strutture non ha individuato un referente per assicurare la continuità assistenziale ai pazienti nei diversi regimi assistenziali e ancora meno (72%) per assicurare la continuità ai pazienti nei vari regimi assistenziali in mobilità. Insomma, per una sanità più vicina ai pazienti la strada è ancora lunga…
Ricette e cartelle cliniche elettroniche sono ancora poco diffuse
All’epoca della “rivoluzione” tecnologica della sanità finanziata dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, c’è inoltre ancora un 20% di strutture ospedaliere che non accettano e rilasciano prescrizioni attraverso ricetta elettronica. Addirittura oltre la metà delle strutture (54,5%) consegna ancora la copia cartacea della cartella clinica al paziente nonostante la versione digitale “possa rappresentare uno strumento più facilmente condivisibile con tutti gli specialisti che hanno in cura il paziente dall’ospedale al territorio – spiega Cittadinanzattiva – e possa essere una semplificazione importante per tutto il percorso di cura”. Ancora, solamente il 34% delle strutture è abilitata all’alimentazione del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) del paziente che dovrebbe raccogliere la storia clinica e sanitaria di ciascun cittadino e renderla facilmente disponibile a tutto il sistema sanitario.
La situazione non migliora quando si tratta di tecnologie digitali più avanzate: teleconsulto, televisita, monitoraggio da remoto. Oltre la metà delle strutture non ha adottato alcuna soluzione digitale in questo ambito. Il 27,3% ha invece attivato le televisite; il 20,3% il teleconsulto; il 18,2% il monitoraggio da remoto. Per quest’ultima prassi, decisiva è stata la pandemia: solo nel 10,5% delle strutture era presente già prima della fase pandemica e non è variata.
Il case manager è sconosciuto alla maggior parte dei DH
“Nota dolente è quella che riguarda la presenza o meno di un case manager – spiega ancora l’indagine -; quella figura che ha l’obiettivo di rappresentare innanzitutto un punto di riferimento per il paziente ma anche di garantire la massima integrazione degli interventi richiesti anche nel raccordo tra ospedale e territorio”. Solo il 31,8% delle strutture individua infatti un case manager per ciascun paziente.
Come migliorare le cure oncologiche in Italia secondo Cittadinanzattiva
Alla luce degli esiti del report, Cittadinanzattiva ha presentato alcune “Raccomandazioni civiche” con il contributo di istituzioni, professionisti sanitari, società scientifiche e associazioni di pazienti. Fra le proposte, quella di istituire ovunque le reti oncologiche regionali per garantire parità nelle cure; mettere a punto percorsi di terapia specifici per patologia; promuovere modalità di assistenza e cura più vicine ai pazienti, ad esempio nelle Case di comunità ed Ospedali di Comunità previsti dal PNRR ma anche, ove possibile, presso il domicilio del paziente.
Ancora, per Cittadinanzattiva occorre incrementare i servizi di consegna dei farmaci al domicilio del paziente; semplificare il percorso di cura, garantendo la prenotazione di visite ed esami necessari. Una semplificazione che deve partire dal Day Hospital: occorre consentire ad esempio l’esecuzione dei prelievi anche in luoghi diversi; scaglionare gli appuntamenti in base alla tipologia di terapia (breve o lunga); separare i percorsi per i controlli e le terapie orali da quelli per le somministrazioni.
Centrale per l’assistenza la nuova figura professionale del case manager, che deve diventare “punto di riferimento per il paziente/familiare/caregiver e tutti i professionisti coinvolti nel percorso”. Ulteriori aspetti su cui intervenire sono infine l’utilizzo di infrastrutture digitali e favorire le soluzioni “e-health” oggi a disposizione, e la formazione di medici e specialisti, ma anche dei pazienti e dei loro caregiver, con il supporto anche delle organizzazioni civiche e delle associazioni di pazienti; per facilitare l’accesso alle cure ma diffondere anche una nuova consapevolezza su come affrontare percorsi di cura, e di vita, così delicati e impegnativi.
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