Il grande rocker inglese, uno dei personaggi più influenti del XX secolo, morì il 10 gennaio di sei anni fa. La sua eredità artistica è di oltre 720 canzoni, distribuite in 25 album, quattro colonne sonore, cinque EP e 15 cd live, e di un continuo trasformismo «che ribalta completamente la gerarchia vita-arte in favore di quest’ultima» (G. Castaldo).
Di David Robert Jones, in arte David Bowie, si è detto, scritto, supposto e pensato tutto. E forse anche di più. Oggi avrebbe compiuto 75 anni. A sei anni dalla morte, appare ormai chiaro il segno che ha lasciato – oltre che nella musica – nella moda e nel costume.
David Bowie, un artista che non cercava le hit ma solo di esprimersi
«La sua musica era l’espressione profonda dei suoi sentimenti, delle sue paure, dei suoi desideri e forse ancor di più della sua visione del mondo. Molti suoi pezzi parlano della nostra società: All The Young Dudes, Life On Mars?, This Is Not America, la lista è lunga. E poi ci sono pezzi come The Man Who Sold The World, che nascono da un’angoscia personale. Essendo un vero artista, la sua opera è espressione di quel che provava. La cosa importante non era centrare una hit. Le ha avute, eccome, ma non sono mai state la sua priorità».
Con queste parole ricordava David Bowie in un’intervista per Rolling Stone Ivo van Howe, il regista dell’ultimo spettacolo lasciatoci dal geniale musicista inglese, il musical Lazarus. Ispirato a L’uomo che cadde sulla Terra di Walter Trevis, ne racconta la storia dieci anni dopo le vicende del libro. Una sorta di chiusura del cerchio per l’artista inglese, che, nel 1976, aveva avuto la prima parte importante come attore per interpretare il protagonista nella trasposizione cinematografica di Nicolas Roeg, affogato nell’angoscia della solitudine e nell’alienazione del diverso. E che ebbe il primo vero grande successo internazionale con il capolavoro The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars. Era un album che trascendeva il glam rock confrontandosi con il punk abrasivo per descrivere le avventure di una band che avrebbe proprio potuto essere composta da “ragni venuti da Marte”. «Con Bowie – disse Bono degli U2 – avevi sempre la sensazione che imbatterti in lui significava poter trovare quelle porte che ti aprivano la strada verso altri mondi».
Cantava le “note sbagliate” secondo qualcuno
David Bowie se n’è andato sei anni fa, due giorni dopo il suo 69° compleanno e la pubblicazione dell’ultimo cd, il vorticoso e magnifico Blackstar, a causa di un tumore al fegato sempre tenuto nascosto. Si ipotizzava solo che avesse problemi cardiaci per il ritiro dalle scene, mai annunciato ma di fatto avvenuto nel 2006, dopo l’apparizione a un concerto per beneficenza di Alicia Keys a New York.
Da quando, nel 1965, l’anno prima che firmasse un contratto discografico, una commissione della BBC commentò lapidariamente la sua proposta come quella di «un tipo cockney (proletario londinese, ndr) non particolarmente originale, un cantante privo di personalità, che canta le note sbagliate e in modo stonato», Bowie ha sviluppato un itinerario pieno di canzoni enigmatiche e insieme dirette, insinuanti e tranchant, sempre vitali nel misurarsi con i generi più disparati.
Dal glam al punk, dall’art prog alla disco music, dal rap al rhythm & blues, dall’industrial all’elettronica, dall’indie rock al cabaret politico, dal soul sofisticato al jazz, i suoi brani offrono ogni volta una magnifica girandola di colori sonori. I suoi album migliori, oltre ai già citati Ziggy Stardust (che tutti mettono tra i primi venti/trenta di sempre) e Blackstar, sono Hunky Dory del 1971, dalla vena pop e cantautorale, Station To Station del 1976, arrivato a illuminare il periodo negativo della dipendenza da cocaina, Heroes del 1977, primo della trilogia berlinese tra krautrock, elettronica e sperimentazione, Let’s Dance del 1983, il suo più grande successo che si confronta con la dance, ed Heathen del 2002, che lo affacciava alla grande sul nuovo millennio.
Un camaleontico personaggio che nascondeva problemi e dipendenze
Il suo trasformismo, in un rimando continuo tra maschera e identità, gli fece indossare i panni iniziali del dandy estetizzante e quelli del “giovane americano” white soul boy, dell’alieno luccicante e dell’algido Duca Bianco, dell’effeminato The Man Who Sold The World e del plasticoso “cane di diamante”, della pin up che rende omaggio ai maestri e dello statuario rocker della band Tin Machine, il gruppo con cui incise due album tra 1989 e 1991.
I dubbi sulla propria sanità di mente legati al suicidio del fratellastro schizofrenico Terry (cui ha dedicato numerose canzoni) e la riconosciuta dipendenza da droghe e sesso lo portarono sull’orlo dell’autodistruzione. Fu probabilmente l’incontro con la top model somala Imam, sposata nel 1992, a fare della sua ultima stagione quella di un personaggio geniale che esprimeva le proprie zigzaganti traiettorie di vita solamente in musica.
Una spregiudicata anarchia poetica, una grande musica senza confini
David Bowie è stato fino alla fine – un’uscita di scena sostanzialmente in sordina: le ceneri disperse con rito buddhista, senza neppure la presenza dei congiunti, come richiese nel testamento – una delle star più variegate e controcorrente del rock, che contribuì a confrontare con l’universo culturale europeo, con la rappresentazione teatrale e con l’arte contemporanea. Il suo multiforme universo sonoro è fatto di rielaborazione magmatica di linguaggi esistenti, di spregiudicata anarchia poetica, di abilità nel mettere in gioco vita, musica, destino, con narcisismo e diretta abilità comunicativa. Una grande musica senza frontiere la sua, che è insieme gioco, avventura, sogno, alienazione, illusione. Insomma, vita.
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