Carmela Chianetta.
E’ nata a Agrigento e vive a Palermo. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni: “Lei aspettava” del 2006, “Il melo di Clara” del 2008, “Andare” del 2008, “Just one day” e “Parto, vieni via con me” entrambi del 2009. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta.
Andando alle deriva,
insieme a dei giovani poeti
Alle sue spalle un silenzio innaturale, che non promette niente di insolito. Nessuna rivelazione, nessuna avventura. Crederesti che è l’ora del riposo per la gente che l’attraversa ogni giorno o che da lì non si è mai mossa. Ma passo dopo passo, quando la malinconia di casa Professa, ritirata nel suo giardino polveroso, è già alle nostre spalle, giunge fino a noi un movimento sincopato che rimanda a suoni a cui un giorno eravamo avvezzi, quando ancora era poco più che l’alba nel mondo. Un rimbombo di guerra forse. Qualcuno si prepara alla caccia e con il suo tamburo diffonde nell’aria la sua invocazione al Signore degli animali, affinché sia generoso: alle bestie dice di aver paura, che se il loro dio accetterà i doni offerti dagli uomini essi non saranno abbastanza veloci e la caccia sarà proficua. Ed è così che è andata dico a me stessa, quando vedo penzolare teste di agnello da uncini ricurvi, accanto a enormi tacchini spiumati e grossi fegati di manzo, violacei e lucidi come melanzane. Tumide e invitanti interiora di maiale, farcite di pepe e di carne trita, “cento pelli,” bianche e spesse come spugne marine. Macellai ai due lati della strada, straripante di ogni sorta di merci. Statuari e fieri, battono il tempo con i loro coltelli, affilati come spade, su enormi cippi di legno arrossati dal sangue. Quello stesso sangue che dona alle loro mani un incarnato tanto più roseo dei loro volti. Dominatori della strada, si compiacciono dei loro trofei e si muovono lenti e misurati come chirurghi, mentre con mano sapiente arrotano i loro strumenti. I pescivendoli battono un tempo minore sui grossi tronchi di legno: devono avere mano più leggera. Non hanno ossa da tritare e muscoli e tendini da tranciare, ma carni bianche, soffiate dalla brezza marina, su cui sfrigola una grigia mucillagine di scaglie trasparenti. Hanno tutto il tempo di guardarsi intorno, mentre riempiono catini di interiora nere e rosse e non si perdono niente di quello che succede in strada. Di questo certo possono dirsi fieri. Sui loro banconi gocciolanti, schegge di ghiaccio appena venato dal sangue, fanno da cornice a pomodori rossi e limoni, frutti della terra e del mare, che giacciono accanto ad alici argentate e polpi color vinaccia, perfettamente allineati da una mano sapiente. Grossi tuberi di patate americane, dalla tragica forma di siluri inesplosi, fanno da spartiacque tra le conserve di “tunnina” e olive nere e verdi, di “conza ”con le sarde ed uno sterminato arcobaleno terrestre di peperoni, limoni, cavolfiori. Solo i ravanelli sembrano sfioriti e contemplano la loro miseria un po’ in disparte. Coralli di peperoncino rosso cacciano lontano i demoni risvegliati dalla mattanza degli animali e scaramanticamente penzolano anche sulle foto dei defunti, orgogliosi fondatori delle botteghe. Tra di essi un prato verde di basilico e prezzemolo, cavoli e zucchine, da cui emergono ciottoli di patate e di finocchio. Si raccontano storie quotidiane su quelle placide verdure, legate dalla rafia bianca, mentre poco distante il più umile degli animali, nella sua lotta claustrofobia, cerca la via della libertà. Cosa deve pensare la lumaca nel trovarsi improvvisamente e irrimediabilmente invischiata ai suoi simili, al punto da dover camminare su loro corpi viscidi e freddi, per sfuggire ad una morte di cui ignora l’orrore? Qualcuna, la più temeraria forse, risale faticosamente i bordi della grossa cesta di vimini che è la sua prigione, da quando ha lasciato le rocce e i campi a cui era avvezza. Ma all’improvviso le forze vengono meno e sfinita cade sui gusci vischiosi che risuonano come noci. E così riprende il suo pianto.
* “Lei ci cridi veru signorina?… signora?”.
“Signora”.
“Ci cridi ca i babbaluci chiancinu? ‘Na matina prestu i sintivi chianciri. Era cu l’amicu miu. Iddri fanno stu rumuri prima di fari a schiumazza! Ma ‘cchiossa su chiddri di l’estati ca chiancinu!”
“Ma fa lei ‘ca ci lu possu chiederi ? Ca ni talia mentri travagliamu? Avi un’ura chi gira ‘ntunnu! Ma però prima c’è diri una cosa! I prezzi chi sta scrivennu ‘ca su i chiù mercati chi ‘ci su!”.
“Non sono qui per spiare i suoi prezzi, sono qui per descrivere questo mercato”, provo a rispondere quasi balbettando. “Guardi lei stesso”, e nel mostrargli il quaderno cade una piuma. “Non ci sono numeri solo parole, voglio descrivere questo mercato ad una amica …”.
L’uomo di cui stavo cercando di carpire i segreti annuisce divertito e mi offre una cassetta di plastica sgangherata, quando mi lascio sfuggire che sono molto stanca. Niente di pericoloso dunque. Solo parole.
“Riusciranno le mie parole a dipingere la vita?”, sembra chiedermi con la sua smorfia. Solo parole, per arrampicarsi sui muri grigi e sporchi che la luminaria natalizia non potrebbe rendere più sublimi. Muri grigi divisi in rombi asimmetrici da tendoni lerci, bianchi e blu, verdi e color ruggine, protesi a proteggere, ad abbracciare e custodire una vita rimasta immutata sotto il cielo. Sembrano vele spiegate di navi che non prenderanno mai il mare e il mercato diventa così un porto dove si raccolgono marinai in cerca d’ingaggio e sognatori in cerca di fortuna quali siamo noi, io e i miei compagni, aspiranti poeti, immobili come statue pensose tra i viaggiatori, intenti ad interrogare gli occhi vitrei dei calamari perché ci rivelino i loro segreti. Le piccole lampadine penzolanti, intrecciate ai fili che congiungono i palazzi di entrambi i lati della strada, incorniciano in rettangoli irregolari il cielo, i balconi traboccanti di panni stesi e quel che resta di una torre con la campana in lontananza. C’è una aspirazione all’ordine in questo caos apparente. Basta guardare con che cura i pesci sono allineati nei loro catini bianchi e lindi, le piramidi di lattine con le scritte ben leggibili e “coppi” impilati l’uno dentro l’altro, accanto a dischi di pescespada e alle sfere perfette dei meloni. Da una cassetta di legno piccole serpi di fave sembrano poter sgusciare via da un momento all’altro. Ma il tintinnio degli uncini mossi da una folata di vento li fa desistere. La strada è stretta e finisco per condividere la medesima sorte delle lumache piangenti, mentre mi faccio spazio ai turisti divertiti, al rombare impaziente dei motorini, ai carrelli di metallo che trasportano merci. Il cigolio delle loro ruote, simile a quello delle vecchie carrozze che ancora portano i turisti in giro per la città vecchia, si mescola alle imprecazioni e ai saluti lanciati con tono di sfida. Voci logorate dall’acredine, profonde come il mare, lodano merci e si mescolano ad una canzone d’amore, intercalata dal ronzare di un grosso frigorifero, al frinire dei sacchetti di plastica e al tintinnio delle monete nelle tasche dei venditori. Una babele di lingue accompagna lo scalpiccio di passi infantili e qualche rapido battito d’ali. Ogni tanto un silenzio innaturale rotto dal tubare dei piccioni, abbarbicati ai cornicioni. Non so da quanto tempo sono li. Un’ora, due ore. Da sempre. Come “u virduraro” con gli occhi annacquati dall’alcool che gli scioglie la lingua, per poi tradirlo sul più bello. Lui sa vendere le sue merci ma è tanto più difficile raccontare della sua vita, passata a contendersi il pane con l’uomo delle lumache, poco distante da lui e a fingere di non sentire lo scherno dei ragazzetti che, proprio alle sue spalle, si prendono gioco del suo balbettio quando loda le sue verdure fresche. Ma si fa coraggio e si avvicina. I suoi occhi si accendono di fiera indignazione quando lascia la sua trincea di cassette di legno. Il suo collo taurino e il passo incerto, la sua figura che non saprei dire se laida o rubiconda, lanciano una sfida timida ed imbarazzata. Il suo onore è in giuoco e come un impacciato eroe vuole farmi sapere sapere che lì, davanti a me, non ci sono solo merci da comprare o un angolo di mondo pittoresco in cui si possa ficcare il naso, come e quando si vuole. C’è la sua vita lì, tutta quanta. E così srotola il suo lenzuolo di cantastorie, dove si narra di un uomo che non ha mai preso moglie, che ha ancora un’anziana madre a cui badare, che beve vino, non si sa per dimenticare o ricordare. Prendo commiato da lui e dal mercato, che è l’ora dell’Avemaria, carezzandolo con lo sguardo mentre la mia mano serra il quaderno. E nelle mie orecchie il suo bolero lentamente scema. Solo a tarda sera si fermerà e farà dire ai suoi marinai esausti, mentre richiudono le vele, che anche restare lì è un viaggio, duro e difficile quanto attraversare il mare in tempesta e il suo mistero.
* “Lei lo crede, vero signorina? … signora?”.
“Signora”
“Lo crede che le lumache piangono? Una mattina presto le ho sentite piangere. Ero con un mio amico. Loro fanno questo rumore prima di schiumare. Ma sono quelle dell’estate che piangono!”
“Ma lei cosa fa qui, glielo posso chiedere? Ci guarda mentre lavoriamo. E da un’ora che gira qui intorno. Ma le devo dire una cosa. I prezzi che lei sta scrivendo sono i più economici del mercato!”.