In Italia cresce il numero di persone che vivono in stato di indigenza. Il Covid, poi, ha accentuato questo status di diseguaglianza sociale ed economica che colpisce tutti, senza distinzione anagrafica
La crisi globale degli ultimi due anni, legata alla pandemia, ha avuto un fortissimo impatto sull’aumento della povertà in Italia. Nel 2019, fino a pochi mesi prima della diffusione del Sars Cov-2, il nostro Paese registrava un miglioramento della situazione economica dei soggetti più fragili, dopo quattro anni di costante perdita di reddito.
Secondo i dati Istat di tre anni fa, le famiglie in condizioni di povertà assoluta erano 1,7 milioni, con un’incidenza pari al 6,4% del totale, rispetto al 7% del 2018, per un numero complessivo di 4,6 milioni di individui. La situazione non si presentava omogenea sul territorio nazionale, perché il Mezzogiorno scontava, come anche oggi, una percentuale più alta di popolazione povera con l’8,5% nel Sud e l’8,7% nelle Isole, rispetto al 5,8% del Nord-Ovest, il 6% del Nord-Est e il 4,5% del Centro.
Nel 2019 la povertà assoluta colpiva un milione e 137mila minori, e accentuava le differenze di provenienza geografica, con il 26,9% di poveri fra i cittadini stranieri, contro il 5,9% di quelli italiani.
Oggi questi dati includono un milione di persone in più, poiché i poveri assoluti sono passati da 4,6 a 5,6 milioni, con il 29,3% di incidenza fra la popolazione straniera e il 7,5% fra quella italiana. Numeri preoccupanti, che hanno raggiunto e superato quelli della crisi economica del 2005, evidenziando ancora una volta differenze territoriali fra Nord e Sud e le fragilità dei nuclei familiari con minori e over 75.
Fra i senior, su una popolazione di circa 6,9 milioni di persone, oltre 2,7 presentano difficoltà motorie o patologie che non consentono una piena autonomia e, fra questi, 1,2 milioni non dispongono di un reddito adeguato a ricevere un aiuto per le attività quotidiane. Oltre 638mila anziani vivono da soli e più di 372mila convivono con altri coetanei.
«Oltre ai tradizionali profili di povertà, nei quali rientrano anche gli anziani a bassissimo reddito, la pandemia ha messo in luce una nuova categoria di poveri, che già si stava delineando prima del Covid e che ora è emersa in maniera dirompente: quella delle giovani coppie con figli, sempre più spesso occupate ma con reddito insufficiente». Così Matteo Luppi, sociologo e collaboratore di Caritas Italiana, spiega a 50&Più la situazione attuale: «Da un lato c’è il tradizionale modello di povertà, con una popolazione marginalizzata, anziana, senza redditi da lavoro e con nuclei ridotti o monocomponente; ma si è verificato anche l’ingresso, non recentissimo, di nuovi profili, con situazioni acuite dalla pandemia, che riguarda giovani con figli minori, che hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita. In diversi casi si tratta di persone che lavorano, in modo regolare o irregolare, e questo la dice lunga sull’attuale modello italiano di contrasto alla povertà, che vede come principale strategia di uscita da questa condizione il mercato del lavoro, con tutte le complicazioni a esso connesse. Esiste dunque un duplice movimento, la sedimentazione dei profili classici della povertà, con la popolazione senior vulnerabile che combatte con risorse – non solo economiche – scarse, dall’altra un profilo emergente, con un’età media di 40 anni e un impiego».
Professor Luppi, è corretto parlare di nuovi poveri?
Quella di “nuovi poveri” è una definizione ridondante, perché nella letteratura internazionale se ne parla già da un po’. Si definiscono comunque i new social risks come contraltare agli old social risks, che riguardano l’evoluzione dei nuovi bisogni sociali, compreso il supporto al reddito lavorativo che sempre più spesso non basta, soprattutto se si considerano le famiglie monoreddito. La definizione sancisce il duplice binario della povertà.
La pandemia ha avuto un impatto sull’occupazione sotto diversi aspetti: le chiusure dovute ai periodi di lockdown, o il cambiamento apportato dallo smart working, hanno accentuato ulteriormente alcune disuguaglianze?
Ci sono lavori che si prestano allo smart working, e di norma sono quelli caratterizzati da qualifiche più elevate; altri, invece, non si possono svolgere da remoto e solitamente coincidono con quelli meno retribuiti. Interi settori, poi, non hanno potuto beneficiare di questo tipo di soluzione perché impossibile da realizzarsi: penso alla ristorazione o ai servizi, che sono stati quelli maggiormente penalizzati durante il lockdown. In ogni singolo ambito bisogna poi differenziare le situazioni occupazionali in base alla tipologia contrattuale, perché i più penalizzati sono stati gli occupati a termine, non vincolati dal blocco dei licenziamenti e quindi più soggetti alla perdita del posto di lavoro.
Anche se è vero che il forte calo di dipendenti a tempo determinato, verificatosi durante la prima ondata, è stato in parte compensato dalla ripresa dell’estate 2020, la nuova fase di chiusure autunnali non ha poi consentito una ripresa costante degli impieghi.
Caritas ha attivato un monitoraggio sul Reddito di cittadinanza, allo scopo di analizzare non solo i dati sulla povertà, ma anche le risposte che sono state messe in campo per fronteggiarla. Quali sono innanzitutto le differenze fra Reddito di cittadinanza e il precedente Reddito di inclusione?
Le differenze principali fra le due misure sono il disegno e la filosofia con la quale ci si approccia alla povertà: il Reddito di inclusione è stato più marginale in termini di risorse impiegate, e si occupava della fascia più povera ed emarginata. Aveva quindi una forte integrazione socio-assistenziale, verteva principalmente sui servizi sociali comunali e sui bisogni dei nuclei familiari che fanno afferenza a questi servizi. Le risorse erano infinitesimali rispetto a quelle destinate al Reddito di cittadinanza, e così pure il numero dei beneficiari e gli importi che ricevevano. Col Reddito di cittadinanza si è assistito a un triplo aumento in termini di risorse destinate, di platea e di beneficio economico.
Il Reddito di cittadinanza è una misura utile a fronteggiare la povertà assoluta? Quali sono i punti di forza e gli aspetti da migliorare?
Il pregio del Reddito di cittadinanza è che, per la prima volta in Italia, sono state destinate così tante risorse a servizio della popolazione povera, cosa che in precedenza mai accaduta. Si tratta di una misura universalistica alla quale si accede su base Isee. Il suo limite, a mio avviso, è la filosofia di base con cui si affronta la povertà, così orientata verso il mercato del lavoro, a prescindere che questo possa essere recettivo o meno ai bisogni e alla domanda, e possa consentire l’uscita dalla povertà. Perché sappiamo che il working poor è un soggetto emergente, non solo in Italia ma in tutta l’Unione europea, dove aumentano coloro che, pur avendo un lavoro, restano al di sotto della soglia di povertà. Un altro difetto è la scala di equivalenza che viene usata per definire l’accesso e l’importo, che si definisce piatta perché, a differenza di altre, ha una crescita progressiva molto più orizzontale all’aumentare del numero dei familiari, e quindi avvantaggia in termini relativi i nuclei a bassi componenti, rispetto a quelli più numerosi. E nel contesto italiano sono le famiglie numerose le più esposte. Un elemento importante e recente in questa direzione è stato l’introduzione dell’assegno unico cumulabile con il Rdc, che ha permesso una maggior tutela a chi ha figli under 21. Un ulteriore elemento da modificare è il vincolo dei dieci anni di residenza in Italia, sul quale si è espressa anche la Cassazione. Un vincolo altissimo rispetto alle caratteristiche della popolazione povera, che esclude una fetta importante di bisognosi.
Collegare l’uscita dalla povertà assoluta solo all’offerta di lavoro non rischia di creare nuove disuguaglianze?
Un problema connesso a questa misura è l’impatto che ha avuto in termini di implementazione dei centri per l’impiego, che sono stati investiti di un ruolo fuori dalla loro competenza e di un enorme carico di domande di assistenza; in più, è stato richiesto un coordinamento tra i vari enti territoriali. Il Reddito di inclusione aveva aperto la strada in questo senso, ma in quel caso, con numeri inferiori, c’era stata tutta la sperimentazione portata avanti da operatori e associazioni del sociale. Il Rdc, con numeri altissimi, è stato invece “calato dall’alto”, e accade che più della metà dei beneficiari non siano idonei all’impiego e debbano essere rinviati ai servizi sociali.
Riguardo alla popolazione senior, negli ultimi anni i dati hanno registrato una diminuzione di over 65 in condizioni di indigenza sul totale per fascia d’età. La pandemia ha modificato l’andamento?
Paradossalmente la popolazione over 65, per una questione puramente demografica, è in controtendenza rispetto all’aumento collettivo della popolazione in condizioni di povertà, e lo è almeno dal 2015. Questo accade perché fra i senior stanno entrando ora i baby boomers, nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino agli Anni ’60, che hanno beneficiato – durante la fase di vita lavorativa – di una costante crescita economica, e che quindi hanno maturato contributi pensionistici rilevanti. Fino ad allora, parliamo di cinque, sette anni fa, la componente anziana era quella che pesava maggiormente sulla povertà assoluta, mentre oggi ha un’incidenza minore sul totale. Ovviamente questo non vuol dire che i senior non siano esposti, dato che circa la metà delle pensioni erogate non raggiunge i mille euro. Durante la pandemia hanno comunque resistito meglio di altre categorie e fasce d’età perché il loro reddito non era legato alle oscillazioni del mercato del lavoro. Ma, come abbiamo premesso, rientrano nei profili tradizionali di povertà che conosciamo meglio e che possiamo affrontare. Il problema più recente, in Italia, sono i nuovi profili dei giovani poveri, in un Paese secondo solo al Giappone per anzianità degli abitanti e con una previsione di crescita degli ultraottantenni da qui al 2070 del 280%, a fronte di un aumento di popolazione in età lavorativa di solo il 20%. La povertà non si affronta solo per fasce di età o in relazione all’occupazione, ma va trattata anche in termini di dinamiche intergenerazionali, con uno sguardo al lungo periodo.
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