Io la mia, arrivata ai fatidici settant’anni, me la sarei scordata come tutti e quindi potrei raccontarmela meravigliosa, piena di allegria, di piaceri e di cuori infranti. Purtroppo il mio maledetto vizio, questa mania di scrivere sempre, di scrivere tutti i giorni, mi impedisce di allinearmi alla smemoratezza generale. Non posso zuccherare il passato perché, per tutta la mia lunga vita, ho preso appunti. E, se li rileggo, sono ben lieta di essere ben insediata nel penultimo tempo. Da giovane ero insicura, avevo un bisogno spasmodico di essere accettata, promossa, lodata, amata, scelta.
L’ipotesi di non essere invitata a ballare, di “fare tappezzeria”, di non conquistare tutte le persone che incontravo mi faceva tremare le vene dei polsi. Dunque ero brutta? O forse ero antipatica. Sarei diventata una grande scrittrice o sarei affogata nella mediocrità? E il mio ragazzo? Era un morto di fame che si accontentava di una ragazza brutta e antipatica come me perché le altre (tutte belle, tutte felici) non ne volevano sapere di lui? Dovevo lasciarlo o imparare ad amarlo? Ero incapace di amare? Quindi ero un mostro. Oddio: ero un mostro?
Non ridete, ci sono delle costanti e delle variabili nelle stagioni dell’esistenza. Le variabili sono storiche, cambiano con le epoche. Le costanti restano uguali attraverso i secoli. Io sono stata giovane negli anni Settanta, alla fine degli anni Sessanta, quando sembrava possibile e praticabile il progetto di cambiare il mondo. Era un buon momento. Soffrivo di tutte le fragilità psicologiche dell’età, ma facevo parte di una generazione e sentivo questa appartenenza come qualcosa che trascendeva i miei piccoli problemi e dava senso alla mia intera vita.
Noi si lottava per un mondo migliore. Ieri. Come sta chi ha 15 anni o 20 oggi?
Il titolo del mio ultimo romanzo, in libreria da poche settimane, è significativo: Un giorno tutto questo sarà tuo. Protagonista e io narrante è un ragazzino di 15 anni, Seymour, figlio di una americana ‘svalvolata’ e di un padre scrittore di successo che lui definisce “vanitoso, egocentrico e fasullo”. Il giovane Seymour esercita uno sguardo attento e crudele sui suoi adulti di riferimento, cioè suo padre e le tre ex mogli del padre che lui chiama ex madri. Mentre guarda, Seymour, percepisce gli scricchiolii sinistri di un mondo che si va sgretolando sia nel concreto alternarsi di siccità e tempesta, sia nell’astratto degradarsi delle relazioni fra uomini e donne e di uomini e donne con il successo, l’obbiettivo mitico che ha sostituito ogni altra fede o ideale.
Dunque che cosa lasciamo a chi è nato da poco? Una eredità faticosa. Disordine, cinismo, indifferenza.
I giovanissimi si difendono come possono, i più fragili – vittime di questo tempo senza sogni – diventano aggressivi. Contro chiunque. Ma soprattutto contro le ragazze. Sono le bande di adolescenti da stupro, ragazzi che non sanno amare. I più forti e, ahimè, si tratta quasi sempre di privilegiati, quelli che da bambini sono stati amati, seguiti e stimolati, provano a vivere come se fosse possibile ancora immaginare un mondo migliore, meno dominato dal caotico scontro di tutti i nostri ‘ego’ intemperanti. I più forti scendono in piazza contro il genocidio (io lo chiamo così, Nethanyahu vuole distruggere un popolo, non vuole soltanto combattere Hamas) dei palestinesi. A favore di una pace mondiale che metta al riparo tutti noi da una terza guerra mondiale. Un conflitto sfiorato ogni giorno da mesi.
Uno scenario di distruzione di massa che mi fa paura immaginare. Essere giovani, come sta scritto, nero su bianco, nei miei cento quaderni, non è una passeggiata, è difficile sempre, è l’età delle scelte, la giovinezza, è il momento in cui provi a far a meno della protezione della famiglia.
È quella faticosa salita che dall’infanzia ti spinge verso l’età adulta, quella in cui, oltre alle scelte, devi incominciare a confrontarti anche con le responsabilità.
Essere giovani oggi è ancora più difficile di ieri: le famiglie sono spesso lacerate dai divorzi, i figli vengono spostati come pacchi da un genitore all’altro. L’attenzione di cui hanno bisogno, quella discreta, quella che vuol dire ascolto e comprensione, non regole e recriminazioni, sono pochi i genitori che sanno garantirla.
Le madri, i padri, tutti sono terrorizzati dall’idea di non essere più – loro stessi – ragazze e ragazzi. I figli vengono invidiati e copiati, non educati e formati (non fate quella faccia, parlo in generale, lo so che ci sono tante eccezioni).
La classe dirigente, soprattutto quella politica e manageriale, fa una brutta figura dietro l’altra. Quante scandalose appropriazioni indebite si sono inanellate dal 1992, anno di “Mani Pulite”, fino ai giorni nostri?
I nati dopo l’anno 2000 hanno trovato già apparecchiata la grande tavola del disincanto. Quali modelli positivi possiamo fornire loro, per contrastare questo triste sentimento?
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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