Sono passati 33 anni dall’incidente di Chernobyl: la notte del 26 aprile 1986 la centrale nucleare di Pripyat, a 18 km dalla città, è scossa da un’esplosione mentre sono in corso i test di sicurezza su uno dei quattro reattori che da soli producono il 10% dell’energia elettrica di tutta l’Ucraina.
La deflagrazione provoca un incendio che disperde nell’aria isotopi radioattivi, e contamina tutta l’area attorno all’impianto. Nei giorni successivi questa nuvola percorre centinaia di chilometri, spostandosi verso Bielorussia, nord Europa, Italia, Svizzera, Francia, Germania, Balcani, Grecia e Turchia, mettendo a rischio contaminazione tutte le aree in cui, in quei giorni, si verificano piogge.
Nell’immediato, gli altri tre reattori restano attivi per non interrompere la fornitura di energia elettrica; ma dopo cinque anni, nel 1991, un incendio al reattore 2 fa temere un nuovo disastro, e perciò viene dismesso. Nel 1996 cessa l’attività del reattore 1 e, nel 2000, quella del numero 3, cosicché l’intera centrale si spegne definitivamente.
Negli anni successivi al disastro, si è posto il problema di come rimuovere i detriti e decontaminare le aree attorno all’impianto: almeno 600mila persone sono state occupate nell’opera di contenimento, fra militari e civili, provenienti da Ucraina, Russia e Bielorussia.
Molte di loro, si stima almeno 240mila, lavorarono a diretto contatto alla rimozione dei blocchi di grafite del tetto del reattore esploso, esponendosi a radiazioni altissime. Inoltre, l’urgenza di mettere in sicurezza quanto restava dell’impianto, portò alla costruzione del cosiddetto “sarcofago”, che avrebbe dovuto coprire 180 tonnellate di combustibile, polveri radioattive e 740mila metri cubi di macerie contaminate e che, anno dopo anno, ha finito col deteriorarsi, tanto da dover essere sostituto.
Nel luglio dello scorso anno è stato inaugurato il New Safe Confinement, il grande arco d’acciaio progettato dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e finanziato da 45 Paesi: una struttura da oltre due miliardi di euro che dovrebbe essere in grado di chiudere ermeticamente ciò che resta del reattore 4 per i prossimi cento anni, in modo che nel frattempo sia possibile lavorare nel sito nucleare in condizioni del tutto controllate e procedere alla bonifica.
Il tema della sicurezza degli impianti nucleari è sempre stato cruciale, soprattutto a seguito di incidenti della portata di quello avvenuto a Chernobyl. In Italia, proprio dopo quanto accaduto in Ucraina, l’8 novembre 1987 si è svolto il cosiddetto “referendum sul nucleare”, con tre quesiti che riguardavano le normative sulla localizzazione degli impianti, l’abrogazione del compenso ai Comuni che ospitavano centrali nucleari o a carbone, e il divieto a Enel, allora statale, di partecipare a progetti nucleari anche all’estero.
Quella data sancì praticamente l’uscita del Paese dal nucleare come fonte di approvvigionamento energetico. Da allora, però, non sono ancora stati risolti i problemi della dismissione delle vecchie centrali e della bonifica dei territori, e il nostro Paese resta disseminato di centri di raccolta e stoccaggio di scorie radioattive. Nel 1999 è nata Sogin, la Società statale di Gestione Impianti Nucleari, con il compito di smantellare i vecchi impianti e metterne in sicurezza i rifiuti, con la successiva creazione di un Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi derivanti non solo dalle dismissioni ma anche dall’industria e dalle attività medico-sanitarie.
Le operazioni di smantellamento avrebbero dovuto terminare nel 2025, ma la fine dei lavori è già stata posticipata al 2036. Le quattro centrali di Trino, Latina, Garigliano e Caorso sono state chiuse tutte prima del 1990, con l’abbandono del Progetto unificato nucleare, e il cantiere di Montalto di Castro, dove era stata avviata una nuova costruzione, interrotto e riprogettato come centrale a policombustibile.
Più del 90% del combustibile irraggiato dalle quattro centrali dismesse non si trova più in Italia, ma è stato inviato in Francia e Gran Bretagna. Delle 30mila tonnellate presenti oggi in Italia, la maggior parte si trova nel Lazio (30% del totale), seguito da Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Basilicata e Campania. Il grande ritardo nella risoluzione del problema di stoccaggio e bonifica ha portato la Corte di Giustizia Europea a condannare l’Italia, al momento senza sanzioni economiche, per la mancata trasmissione del programma nazionale definitivo di gestione del combustibile nucleare.
La Direttiva 2011/70/Euratom ha infatti istituito un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi, e stabilisce che gli Stati Membri notifichino alla Commissione il loro programma in merito. Il termine è scaduto quattro anni fa.
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