Giuseppe Cerritelli.
Dopo il diploma di Perito Chimico (1963) è stato selezionato al corso iri per Tecnici Superiori della durata di due anni. Assunto in una grande azienda, è riuscito, lavorando, a laurearsi in Sociologia. In quell’azienda ha raggiunto alti livelli direzionali, ma con la privatizzazione si è licenziato e si è riproposto come tecnologo free-lance. Ha svolto attività in tutti i continenti, ora è in pensione. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Terni.
Sono nato in una fredda sera del febbraio 1944. La nostra era una casa colonica al margine di una piccola valle a forma del palmo di una mano. Un limpido ruscello sembrava disegnarne la linea del cuore.
Non era un periodo felice. C’era la guerra, ed era molto vicina. Il fronte fermo a Cassino disegnava la sua linea rossa verso l’Adriatico sul fiume Sangro a non più di 10 chilometri in linea d’aria dalla mia casa.
Ogni sera all’imbrunire cominciava il bombardamento d’artiglieria. Gli alleati bombardavano la città di Chieti con l’intento di colpire la sede del comando tedesco e fiaccare la resistenza della popolazione.
Appena dopo la mia nascita, quella sera, una granata è caduta a non più di 100 metri dalla nostra casa. Aveva ragione mia nonna a dirmi poi da bambino che ero nato con una cannonata!
La situazione durò fino a primavera inoltrata. Mio padre raccontava che mi copriva la testolina con il cuscino quando la sera sentiva in lontananza la salva dei cannoni.
A maggio inoltrato, alla caduta di Cassino, il fronte si mosse verso Nord. Fu scongiurato per noi lo sfollamento grazie all’opera meritoria dell’Arcivescovo Venturi che riuscì a far dichiarare Chieti, come Roma, città aperta.
E fu la liberazione! La domenica successiva, con le campane che suonavano a festa, la mia famiglia raggiunse la città per la Messa.
In prossimità della nostra casa si era intanto accampato un reggimento di Sipoys, il contingente di soldati Indiani dell’esercito coloniale Inglese.
Di ritorno verso casa, mio padre e mia madre con me in braccio incontrarono un gruppetto di questi con le loro divise appariscenti ed i tipici turbanti in testa.
La nostra giovane famigliola, con io piccolino vestito di bianco, deve aver suscitato simpatia e nostalgia a quei giovani così lontani da casa.
Fecero capannello e cominciarono a far festa in una lingua per mio padre e mia madre totalmente sconosciuta.
Mia madre specialmente era molto timorosa nel vedere quei soldati con la carnagione così scura. Il timore diventò terrore quando il sott’ufficiale indiano volle prendermi in braccio.
Mia madre terrorizzata pensava che mi avrebbe sporcato il vestitino bianco!
La vita andò avanti. La mia famiglia crebbe, nei due anni successivi arrivarono i mie due fratelli e con loro tanti sacrifici per crescerci e mandarci a scuola.
Io ero molto bravo, così proseguii dopo la scuola media e mi diplomai Perito industriale. Fui selezionato per un corso iri per Tecnici Superiori e subito dopo iniziai la mia attività lavorativa in una grande azienda.
Mi sono sposato con una splendida ragazza con gli occhi verdi e presto la famiglia, di cui vado molto orgoglioso, crebbe con l’arrivo di tre bellissimi figli.
In quel periodo, lavorando, sono riuscito a laurearmi e poi, con grande impegno, ho fatto una ottima carriera raggiungendo una posizione direzionale in azienda.
Arrivò la privatizzazione e per me la necessità di ricominciare da capo.
Con la professionalità acquisita non mi fu difficile propormi come Tecnologo free-lance.
Con Società impiantistiche Italiane e Tedesche, ho affrontato interessanti missioni ai quattro angoli del mondo, ammodernando impianti ed avviandone di nuovi.
Un giorno mi fu chiesto di effettuare un survey di un impianto a Surat in India. Vi arrivai da Bombay in treno e lì trovai ad aspettarmi un “guerriero” della casta indù con tanto di baffi e barba e un bellissimo turbante in testa.
Ero stato l’anno precedente in India a Bangalore che già allora si presentava come una città moderna: Surat era tutt’altra cosa!
Dalla stazione dovemmo attraversare la città trovando su una piazza un ingorgo pazzesco: camion, motorini, tuk-tuk, mucche sacre e… un elefante!
Il giorno dopo visitai l’impianto e poi partecipai ad una riunione dove presentai proposte di miglioramento dei macchinari.
Naturalmente fui invitato a pranzo e con il “guerriero” raggiungemmo il ristorante della foresteria della Società.
Su un tavolo vicino al nostro pranzava un signore, presumo un dipendente della società, con la propria famiglia: una donna anziana, forse madre di lei, un ragazzino di 10-11 anni e una bellissima signora nel fiore degli anni con il “tilaka” (pallino rosso) che separava le sopracciglia di due luminosi e grandi occhi neri.
Subito mi accorsi che prima di sfuggita e poi sempre più intensamente lei mi osservava.
Ad un certo punto ebbi la sensazione che volesse “mangiarmi” con gli occhi.
Sembrava ipnotizzata, forse, pensai, era la prima volta che vedeva dal vero un “occidentale” bianco. Ero quasi in imbarazzo, fortuna che il marito mi voltava le spalle!
Ad un certo punto la signora si alzò per recarsi alla toilette; calcolai il tempo ed andai anch’io.
Ci incontrammo nell’atrio. Incrocio di sguardi, un sorriso e prontamente le detti il mio biglietto da visita che lei fece sparire tra le pieghe del suo “sari”.
Di ritorno in Italia ripresi le mie normali occupazioni. Circa un mese dopo ricevetti una lettera.
Era dall’India, da Surat, senza indicazione del mittente. Era la signora del ristorante.
In un inglese elementare ma scorrevole, con una calligrafia molto curata, si presentava e quasi a scusarsi, chiariva la sua insistenza nell’osservarmi.
Ranjita, questo è il suo nome, cercava di capire la mia provenienza: Americano? Inglese? Tedesco?
La sua sorpresa fu quando dal mio biglietto da visita capì che ero italiano!
Con enfasi mi raccontava che da piccola si era innamorata dell’Italia dai racconti di suo nonno che, in guerra, era stato in questo bellissimo Paese dove gli abitanti molto socievoli, li accoglieva festosamente.
Tra i tanti episodi, Ranjita era rimasta affascinata dal racconto di un incontro del nonno con una famigliola e dall’incanto di aver preso in braccio un piccolo bimbo tutto roseo vestito di bianco.
Ranjita era la nipote del soldato Sipoy che mi aveva preso in braccio!!