Ad oltre un anno dalla sua comparsa, la variante Omicron risulta ancora predominante al 99,8%. Tuttavia, non è solo la sottovariante Ba.5 a preoccupare, come indicano i dati dell’Istituto Superiore di Sanità.
Rispetto alle indagini dei mesi scorsi, infatti, si registra una crescita sempre più elevata di altre due sottovarianti. La Bq.1, nota come Cerberus e Gryphon o XBB.
Cerberus è stata già rilevata in un terzo del totale dei campioni sequenziati, circa il 30,7%, e negli Stati Uniti risulta essere già responsabile di oltre la metà dei contagi. Più contenuta la diffusione di Gryphon, che invece ha toccato una prevalenza del 2,4%. Secondo l’Iss si tratta di mutazioni da monitorare con attenzione perché a maggiore trasmissibilità e con potenziale evasione della risposta immunitaria. Insomma Omicron, variante del ceppo originario di Covid-19, continua a originare una lunga serie di sottovarianti: Cerberus in particolare presenta due mutazioni sulla cosiddetta proteina spike, il principale meccanismo che il virus utilizza per infettare le cellule bersaglio.
I sintomi
Al momento non ci sono dati che indicano una maggiore pericolosità di Cerberus e Gryphon: come le altre versioni precedenti di Omicron, sembrano colpire soprattutto le alte vie respiratorie, con sintomi simil-influenzali, come congestione nasale, mal di gola, forti mal di testa, tosse, febbre e dolori muscolari. In alcuni casi sono stati rilevati anche disturbi intestinali e più raramente difficoltà a respirare e alterazione del ritmo cardiaco.
Cerberus e Gryphon: sottovarianti immunoevasive
Entrambe sembrano essere più immunoevasive, ossia in grado di superare più facilmente le difese immunitarie delle persone. Il rischio di reinfezione appare dunque più elevato. Il consiglio dei medici è quello di procedere al tampone di controllo già alle prime avvisaglie, in modo da appurare se si tratti di Covid o meno, e non aspettare che si presenti la febbre, in molti casi superiore ai 38 gradi.
I vaccini funzionano contro le nuove sottovarianti?
I risultati degli studi condotti sui soggetti anche hanno ricevuto la seconda dose booster indicano che i loro anticorpi sono in grado di neutralizzare meglio queste nuove sottovarianti, a differenza degli anticorpi prodotti dal primo vaccino anti Covid. Il che non significa che azzerino la possibilità di contrarre il virus, ma che ne possano impedire uno sviluppo in forma grave.
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