Donna L.I.S.A. si occupa di accoglienza, ascolto consulenza, supporto emotivo, accompagnamento all’accesso ai servizi. Il racconto di Daniela Amato e Paola Lembo, presidente e operatrice del Cav
Secondo l’Istat oggi in Italia ci sono 373 Centri antiviolenza (Cav), luoghi protetti che accolgono donne che subiscono violenza. Abbiamo incontrato Daniela Amato e Paola Lembo, presidente e operatrice del Cav Donna L.I.S.A. attivo nel Municipio III di Roma. «L.I.S.A. è un acronimo e significa Libertà, Internazionalismo, Soggettività, Autodeterminazione. Abbiamo aperto le porte per la prima volta nel 1997, ci occupiamo di accoglienza, quindi ascolto, consulenza, supporto emotivo, accompagnamento all’accesso ai servizi di cui le donne hanno bisogno» ha spiegato Amato.
Il Centro è gestito dall’associazione ‘Donne in Genere’, che ha firmato un protocollo d’intesa con il Municipio romano (i Cav possono essere gestiti da organizzazioni, da enti pubblici e locali o da entrambi i soggetti tramite la firma di apposite convenzioni ndr). Il Centro è parte della rete nazionale D.i.Re – Donne in rete: un gruppo di 81 organizzazioni che gestiscono 108 Cav e più di 60 case rifugio, residenze che ospitano donne in pericolo. Nel 2022 D.i.Re. ha accolto 20.711 donne in tutta Italia.
Donna L.I.S.A. fa anche formazione. Amato racconta: «La violenza è un fenomeno strutturale, per cambiare qualcosa c’è bisogno di intervenire profondamente nella cultura del Paese. Formazione significa far comprendere dove e come nasce la violenza e saper valutare i rischi reali per la donna. Facciamo progetti nelle scuole e in passato con aziende e medici di base per informare e dare indicazioni su come intervenire. Formiamo, inoltre, le nostre operatrici. È importante che imparino l’approccio giusto per accogliere le donne e per relazionarsi tra di loro».
È Paola Lembo, operatrice, a raccontare l’attività di Donna L.I.S.A.
Come nasce il Cav?
Nasce dalla volontà delle attiviste di Donne in Genere di mettere il proprio vissuto di militanza politica e femminista al servizio di altre donne in modo da favorire percorsi di fuoriuscita dalla violenza maschile. Si tratta di una pratica, tipica del femminismo degli anni Sessanta, che vede le donne aiutarsi a vicenda condividendo percorsi personali e politici per sviluppare una profonda consapevolezza di sé, del proprio ruolo nella società e nelle relazioni.
Che rapporto si instaura tra una donna e le operatrici che l’accolgono?
È una relazione biunivoca e protetta. Noi parliamo solo con lei e rimaniamo esterne a tutte le dinamiche familiari e amicali che vive fuori. Il nostro rapporto è privo di condizionamenti affettivi che possono influenzarci.
Come arrivano da voi le donne?
Attraverso due canali: dai servizi sociali e sanitari e le forze dell’ordine giungono le donne che sporgono denuncia o si presentano da loro con segni di violenza. L’altro canale è il passaparola. Ci facciamo conoscere con i progetti nelle scuole o in altre realtà o grazie a chi parla di noi e delle nostre attività.
Quali servizi offrite?
Più che servizi, ci piace pensare che si tratti di pratiche politiche volte a sradicare il sistema valoriale e culturale che alimenta pregiudizi e volontà di controllo sulle donne. Accogliamo le donne e ascoltiamo ciò che hanno da dire. Se serve, abbiamo due avvocatesse che in giorni stabiliti vengono al centro e forniscono consulenza legale gratuita. Se si vuole fare un’azione giudiziaria, loro si battono per ottenere il gratuito patrocinio. Una nostra operatrice è anche psicoterapeuta. Se la donna volesse intraprendere un percorso con lei, lo farebbe al di fuori del Cav, a prezzi calmierati.
Cos’è la prima accoglienza?
È la fase più delicata del percorso. Chi arriva da noi vive in una situazione disfunzionale, a volte anche rischiosa. Noi creiamo un rapporto paritario: ci mettiamo in ascolto, non giudichiamo, crediamo alle parole e alle emozioni che le donne ci riferiscono. Infondiamo l’idea che una via d’uscita esiste, che possiamo trovarla insieme e le sosteniamo nel percorso che vorranno intraprendere.
Com’è strutturato il percorso?
Gli incontri al Cav non hanno una cadenza fissa, si decide insieme alla persona interessata quando fissare appuntamento. Chi di noi gestisce il telefono e risponde alle chiamate e alle richieste di aiuto si occupa anche degli appuntamenti. A volte alle donne che abbiamo in carico viene meno la motivazione, allora proviamo a intensificare gli incontri. È possibile che quando tornano a casa, vivano ancora con compagni violenti. Il percorso si conclude quando la donna si sente sicura di sé e non percepisce più di essere in pericolo, abusata, intrappolata in una relazione che non la rende felice.
Quali sono i fattori di rischio?
Tutti. La violenza fa parte del nostro sistema socioculturale. È trasversale e non ci sono discriminanti: né l’istruzione né la provenienza geografica, né il reddito, né il ceto. Non esiste l’identikit dell’uomo violento. Si tratta di un uomo che esprime possesso e controllo sulla donna, sia nella sfera fisica, sia emotiva che economica.
Quanti aspetti ha la violenza?
La violenza ha tanti aspetti: c’è quella domestica, psicologica, fisica, economica, le molestie sul lavoro o in luogo pubblico, le discriminazioni professionali. È violenza psicologica giudicare il corpo di una donna, rimproverarla perché non è sposata e non ha figli, o perché i bambini sono maleducati, sottintendendo che il lavoro di cura sia solo a suo carico. Esiste la piramide della violenza: da una base più ampia di gesti, come il ‘catcalling’, si arriva ai più gravi in cima, fino al femminicidio.
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